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Società

Il lungo viaggio dei bambini diacronici: un’operazione di filologia emotiva

Il lungo viaggio dei bambini diacronici: un’operazione di filologia emotiva, Davide Orecchio, Storia aperta, Bompiani 2021

La mia è una lettura molto personale e molto coinvolta di questo libro, una narrazione diacronica del Secolo Breve attraverso una figura di Padre simbolica e al tempo stesso concreta, che compendia in sé altre esistenzeche si sono intrecciate alla sua.

Orecchio narra dei “bambini diacronici” del secolo scorso, cui appartiene Pietro Migliorisi, il protagonista, e leggo sul Dizionario Treccani l’origine linguistica di questo aggettivo:

Linguistica diacronica è quella che considera le strutture e gli elementi linguistici nel loro succedersi e trasformarsi nel corso del tempo, in contrapposizione alla linguistica sincronica che studia la lingua nell’aspetto in cui si presenta in un determinato momento, attuale o passato, della sua storia.

Una narrazione diacronica- intendo- è dunque il seguire un personaggio nel suo percorso e nelle sue trasformazioni, nella sua evoluzione, per come si intreccia con la vicenda storica e i suoi interlocutori, antagonisti o compagni di ventura.

Ma non scriveva già Goethe, in una citazione trascritta da mio padre Franco nel 1979?

Poiché questo sembra essere il compito principale della biografia: rappresentare l’individuo nei rapporti col suo tempo, e mostrare dove il tutto gli si opponga, dove lo favorisca, come egli ne abbia tratto una visione del mondo e dell’umanità, e come, se è artista, poeta, letterato, lo rifletta a sua volta. Ma per questo occorre qualcosa di pressoché irraggiungibile, cioè che l’individuo conosca se stesso e il suo secolo; se stesso in quanto è rimasto il medesimo in tutte le circostanze; il secolo, in quanto trascina con sé, determina e foggia i volenti e i nolenti, così che si può dire che ognuno, nascendo solo dieci anni prima o dopo, quanto a cultura e influsso esteriore, avrebbe potuto diventare un altro. [Prefazione a Poesia e verità].

Mi pare che Orecchio, lavorando per anni sui materiali lasciati da suo padre, accumulazioni di frammenti per un “gigante d’inchiostro”, cioè quel romanzo autobiografico perseguito per decenni e mai compiuto, ci lasci un grande ritratto diacronico della generazione dei padri, di quelli che sono cresciuti sotto il fascismo e lo hanno prima seguito e poi combattuto, diventando comunisti, sposando una nuova concezione totalizzante e salvifica nella quale espiare le colpe passate, per poi vedersela frantumare sotto gli occhi, privata persino del nome.

Ho avuto il privilegio e la gioia di accedere a queste pagine densissime quando erano ancora in bozza, e le ho più volte ripercorse, perché si attraversano e si intendono con fatica. Finalmente una lettura non consolatoria e di intrattenimento, ma un pugno nello stomaco per chi ha ancora voglia di fare i conti col lascito del Novecento! 

Se in Italia non si è ancora finito di fare i conti con il lungo viaggio attraverso il fascismo, che continua a suscitare interpretazioni ed interrogativi, stavolta Orecchio ci offre la continuazione di quel percorso nel lungo viaggio attraverso il comunismo che ha coinvolto tanti intellettuali del secolo scorso.

Per me che avevo cercato di documentarlo editando le pagine di mio padre Franco, andando oltre i suoi diari della resistenza e rendendo pubbliche le pagine amare degli anni Settanta ed Ottanta (La vita indivisibile e Le occasioni di vivere), un sentimento di sintonia, tanto più che nella figura del protagonista si fondono tanti elementi della scrittura di mio padre, letteralmente ripresi con segnalazione. E non solo lui, ma tanti altri di quella generazione, da Felice Chilanti e Fabrizio Onofri, da Mario Alicata a AnonelloTrombadori, da mia madre Maria Teresa Regard a Miriam Mafai.

La felice scelta di Davide Orecchio è stata infatti quella di intrecciare le scritture del padre, non sempre compiute, con tante altre scritture memorialistiche, nella ricerca di una storia di quella generazione, storia “aperta” a tute le sue sfaccettature.

La domanda finale del libro è: Ma adesso chi la racconta la verità? E la risposta sta in questo assemblaggio di versioni di un romanzo incompiuto dai padri e dalle madri, e lasciato in eredità con un punto interrogativo drammatico.

L’operazione che avevo fatto io a suo tempo (Le occasioni di vivere, La Nuova Italia 1994) era stata di alternare i diari del vissuto quotidiano di mio padre alle sue pagine poetiche e romanzesche, sottolineando la difficoltà a dar forma a un materiale “che oscilla continuamente tra diario e brani più propriamente di letteratura, tra la saggistica, la memorialistica e l’idea di un’opera, dell’«opera» perseguita per tutta la vita. L’avevo definita un’operazione di “filologia emotiva”, che ritrovo nell’atteggiamento di Davide Orecchio, anche se lui è andato oltre, ha aperto alle voci degli altri, è riuscito a catturare una memoria più vasta e variegata.

Trovo straordinario il ritratto di Felice Chilanti, che fu amico vicino anche a mio padre, confidente dei suoi tentativi letterari, così come Stefano Terra: figure laterali, interlocutori al di fuori della dimensione disciplinare del Partito, con i quali scambiare un privato, un’intimità che non si riusciva a rendere pubblica. E colgo l’occasione per ricordare qui Ennio Lauricella, un altro “bambino diacronico”, un letterato e comunista non realizzato, amico di Franco e frequentatore degli ambienti letterari romani da Moravia a Pasolini ad Elsa Morante, per fortuna immortalato in alcuni personaggi cinematografici di Pasolini e di Huillet-Straub (Othon e Dialoghi con Leucò) nella sua affabulazione recitante (memorabile il suo Tiresia). Ennio si poteva incontrare solo in strada, in piazza, la sua casa sul Lungotevere era inaccessibile, eppure mio padre vagheggiava che custodisse innumerevoli manoscritti, accatastati in disordine tra i libri, e che sarebbero stati una rivelazione dopo la sua morte. Purtroppo se n’è andato solo e non avendo eredi designati la sua casa è restata inaccessibile anche dopo la morte: forse quelle carte sono andate distrutte, ma anche lui inseguiva il “gigante d’inchiostro” di Pietro Migliorisi, e ne abbiamo potuto trarre spezzoni solo dalle sue conversazioni. 

Altro personaggio memorabile è “il Comunista”, in cui si intrecciano tante figure di dirigenti affermati, da Mario Alicata ad Antonello Trombadori a Maurizio Ferrara, a lungo censori e inquisitori nei confronti dei letterati riconvertiti al giornalismo quali Alfredo Orecchio e Franco Calamandrei.

Nell’amarezza finale del Comunista ormai disilluso ritroviamo il ricordo del fratello Giovanni Ferrara sulla disperazione di Maurizio dopo l’89. E che dire di Di Vittorio, e della sua vicenda nel 1956, quando il suo dissenso viene ricondotto all’ordine? E come è ben tratteggiata la figura di Togliatti, con la sua mano morbida, il padre acquisito per riscattare le colpe del passato, e il cui giudizio si teme in ogni momento di dubbio!

Belle le pagine sugli anni Settanta ed il confronto con le nuove generazioni, coi dubbi che le loro proteste insinuano pur condannandone le derive: l’incontro tra Migliorisi invecchiato e la giovane militante di Lotta Continua Vittoria, ed il suo accudirlo nella malattia finale. Momenti romanzeschi centrati sui sentimenti, sulla cura, che infondono consolazione al lettore, come se nella riserva dell’io ci fossero pulsioni represse che possono risvegliarsi. E significativa la percezione che in quegli anni, nel riproporsi della minaccia del fascismo attraverso la strategia della tensione, quella generazione sia stata spinta a interrogativi e bilanci di vita, rendendosi conto che gli intrecci perversi della società e della politica italiana non erano stati definitivamente sconfitti.

Di fronte alle trame nere Migliorisi, così come mio padre (di cui Davide Orecchio riprende alcune frasi) ha l’impulso a raccontare:

Volevi raccontare la storia. Spiegare ai giovani la fondazione di te nella resistenza. In un libro. Doveva scriverlo il tuo gigante d’inchiostro? Era ancora vivo? Tu volevi mostrare la resa dei conti. In un romanzo di te. Eri pentito di non aver osato di più nella città dei bambini. In quel tempo mancato si era persa la tua rigenerazione. Ne eri convinto. Lo dicevi al diario. La tua firma sotto la medaglia restava illeggibile. La tua resistenza era un fallimento. La tua scrittura era un fallimento. Ma adesso, che tornava il fascismo, tu provavi di nuovo. Ripetevi al diario: è la resa dei conti. Dicevi: ed è la mia vita.

E per me è bello che la narrazione di Orecchio prosegua oltre quella che avevo raccolto di mio padre, bruscamente interrotta dalla sua morte nel 1982. Alfredo Orecchio/Pietro Migliorisi, ex fascista, gappista, comunista, giornalista autore di grandi cronache del processo Montesi e del golpe

Borghese (felicemente impastate nel magma ella storia), vive anche la caduta storica del 1989 e la fine del Partito cui aveva dedicato le sue migliori energie, fino alla cancellazione del nome. Eppure continua a sentirsi comunista, anche se dà fiducia ai nuovi traghettatori. All’ultimo congresso interviene per dire che accetta anche la perdita del nome:

Perdi il nome. Lo accetti. Per te conta solo salvare la cosa. Il nome non sarà più pubblico. Sarà un nome privato. Sarà dentro. Mai fuori. Sarà il tuo comunismo interiore. Evviva il comunismo, comunque si chiamerà.

E tra gli appunti che Vittoria ritrova accanto alle poesie di Montale, dopo la morte di Pietro c’è scritto che vorrebbe morire “serenamente come un comunista”.

Sono grata a Davide per la sua fatica, e per aver saputo capire il senso e incorporare tante scritture di Franco. Quando le pubblicai mi sembrò di avere fatto un buco nell’acqua, per la scarsità di reazioni tra coloro che gli erano stati più vicini, e che non sembravano condividere il suo dramma.

Poi c’è stato il giovane storico Alessandro Casellato a coglierne il messaggio e a lavorarci sopra, fino al suo Una famiglia in guerra (Laterza 2008), lumeggiando soprattutto la relazione con la generazione precedente.

Storia aperta si proietta invece verso il futuro, e mi piacerebbe che interpellasse le nuove generazioni, se sapranno misurarsi con la complessità del testo, a tratti convulso e concitato, a tratti più disteso, mai accattivante e compiaciuto.

Eleanor Roosevelt, Una first lady per il mondo

Rossella Rossini, Eleanor Roosevelt, Una first lady per il mondo, Edizioni di storia e letteratura 2021

Dopo averci offerto una piccola antologia dei suoi interventi, all’insegna della curiosità che la animava (Eleanor Roosevelt, Elogio della curiosità, 2017) ora la casa editrice Edizioni di storia e letteratura ci offre un ritratto biografico di questa grande donna, impegnata socialmente e politicamente a livello statunitense e globale. 

Nella prefazione Furio Colombo rievoca l’incontro con lei, nel 1960, e la scoperta del ruolo essenziale di Eleanor non solo come compagna del Presidente, ma come comunicatrice e ambasciatrice dei valori delle Nazioni Unite nel mondo. Un ottimo percorso bibliografico in coda al volume consente gli opportuni approfondimenti sulla variegata attività di questa protagonista del Novecento.

Curioso che questa biografia costituisca ancora una scoperta, in un mondo in cui l’affermazione delle donne, soprattutto nella sfera del potere politico e mediatico, è relativamente recente ed ancora limitata. Da segnalare che la sua love story con la giornalista Lorena Hickock ha ispirato un romanzo ora tradotto da Fazi, Due donne alla Casa Bianca.

Ritorno alla Candela?

Serge Latouche, Breve storia della decrescita, traduzione di Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri 2021

In una Europa che sembra farsi una bandiera dello sviluppo sostenibile, ed una Italia che ha addirittura un ministro alla transizione ecologica (peraltro con qualche sbandata sul fronte energetico, sui fossili e sul nucleare), torna utile questo compendio del pensiero di Latouche sulla decrescita, che sgombra il terreno da equivoci e malintesi.

A lungo decostruttore del concetto di “sviluppo sostenibile”, Latouche ribadisce che si tratta di un ossimoro lanciato dalle lobby industriali che tentano di salvare la religione della crescita di fronte alla crisi ecologica e propone un’alternativa radicale allo sviluppismo: un progetto di società alternativa, di fuoriuscita dall’economia.

Il suo progetto di società dell’abbondanza frugale in un a società solidale non vuole un ritorno all’indietro né si declina in un modello unico, superando l’economicizzazione delle menti e la mercantilizzazione del mondo. Per procedere al cambiamento occorre decolonizzare l’immaginario, e la pedagogia delle catastrofi dovrebbe aiutare un tale direzione. Le catastrofi ripetute sono un potente monito a cominciare ad agire subito per la sopravvivenza. 

Scritto nel 2019, il messaggio acquista valenza più persuasiva dopo la pandemia e difronte all’acutizzarsi delle conseguenze del cambiamento climatico:

“Il post-sviluppo, necessariamente plurale, significa la ricerca di modi di realizzazione collettiva nella quale non sia privilegiato un benessere materiale distruttore dell’ambiente e del legame sociale. L’obiettivo della buona vita si declina in modi diversi a seconda dei contesti. Insomma si tratta di ricostruire o di ritrovare nuove culture”.

E soprattutto bisogna reincantare il mondo e ritrovare” la capacità di meravigliarci della bellezza del mondo che ci è stato dato, che il produttivismo saccheggia e che il consumismo vuole distruggere con la banalizzazione mercantile”.

Ma stiamo imparando la lezione?

Per conoscerci meglio: “Storia dello Stato sociale in Italia”, di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan

Chiara Giorgi, Ilaria Pavan

Storia dello Stato sociale in Italia

Bologna, Il Mulino, 2021


Un saggio che giunge veramente al buon momento, quando la pandemia rivela come l’indebolimento e smantellamento dello Stato sociale, accelerato dopo la crisi del 2008, abbia aggravato e indebolito la capacità di gestione pubblica e di protezione dei cittadini, sia dal punto di vista della salute che della sussistenza.

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