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Luci ed ombre della storia recente della Cina

Saggi storici e testimonianze sulla e dalla Cina popolare: interrogativi e revisione di molte certezze

  

Yang Jisheng, Tombstone, The Great Chinese Famine (2012), Frank Dikőtter, Mao’s Great Famine (2010) [in biblioteca], Frank Dikőtter, The Tragedy of Liberation (2013), Yen Fu, Hard Road Home, Ragged Banner Press 2013 [in biblioteca]

 

Due saggi storici recenti sono tornati a raccontare gli anni della apocalittica carestia che la Cina ha vissuto tra il 1958 e il 1961, dopo il Grande balzo in avanti: una narrazione dall’interno, del giornalista Yang Jisheng, con un ampio saggio in cinese (Hong Kong 2008) sintetizzato in inglese in Tombstone, The Great Chinese Famine (2012); l’altra condotta da Frank Dikőtter, sinologo olandese che insegna all’Università di  Hong Kong, intitolata Mao’s Great Famine (2010).

Lo studio della catastrofe umana ed economica seguita alla accelerazione della industrializzazione e della collettivizzazione delle campagne con la creazione delle Comuni popolari, dispone ormai di fonti archivistiche accessibili, soprattutto a livello provinciale e locale. E’ a tali fonti che ha attinto Yang , giornalista dell’agenzia governativa Nuova Cina, dedicandosi per venti anni ad una ricerca minuziosa negli archivi locali sui “tre anni di disastri naturali” che seguirono al Grande balzo in avanti, e documentando la morte per fame di più di 35 milioni di cinesi.

Sentiva di doverlo al proprio padre, perito proprio in quella catastrofe, senza che il figlio studente si rendesse conto di quanto stava avvenendo in campagna. Con l’opera ha voluto rendergli gli onori funebri, e costruire un monumento ai milioni di cinesi morti per fame.

La tragedia  della carestia di quegli anni era già stata ricostruita in Occidente da Jasper Becker Hungry Ghosts (1996) [La rivoluzione della fame, Il Saggiatore, Milano 1998], ma lo straordinario è che per decenni è stata cancellata nella memoria cinese, e che l’accurata raccolta dei dati compiuta da Yang Jisheng è stata bandita dalle librerie cinesi (dopo esser stata pubblicata ad Hong Kong). Quei 35 milioni di morti scomparsi misteriosamente erano occultati perfino nelle statistiche ufficiali, anche se i demografi stentavano a spiegare razionalmente l’ improvviso calo demografico dei primi anni Sessanta. I disastri del passato restano terreno proibito di indagine, anche se la memoria continua a circolare nelle pieghe della società.

Ovviamente Dittőker, dall’esterno, ha potuto attingere alla vasta letteratura già esistente sul tema e la stessa operazione ha compiuto per scrivere un prequel uscito nel 2013, The Tragedy of Liberation, che ha come sottotitolo Una storia della rivoluzione cinese 1945-57. E già annuncia un prossimo sequel sulla Rivoluzione culturale.

L’obiettivo di Dittőker è di smontare il canone che vuole che il primo decennio del regime comunista cinese sia stato l’età dell’oro, quella della “Nuova democrazia”, improvvisamente spezzato dall’accelerazione impressa da Mao dopo il 1956 alle trasformazioni rivoluzionarie. Il suo lavoro si colloca nel solco dei China watchers che negli anni Cinquanta raccoglievano le testimonianze dei profughi dalla Cina comunista e opponevano alla propaganda di Pechino una versione tutta negativa delle trasformazioni in corso dopo la Liberazione del 1949, versione funzionale all’epoca a escludere la Repubblica popolare dal consesso internazionale privilegiando Taiwan come unica rappresentante della Cina.  Tale versione, eminentemente anglo-americana, sarebbe stata poi ridimensionata negli anni Settanta, con il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con la Cina e con l’ondata di popolarità che la Rivoluzione culturale aveva acquisito in Occidente e nel cosiddetto Terzo Mondo.

Molti studiosi avrebbero aderito all’immagine di alternativa alla via sovietica di cui l’esperienza maoista si vantava, non cogliendo gli aspetti totalitari delle ondate di mobilitazioni di massa di cui il regime si avvaleva per controllare le contraddizioni sociali.

Nella Cina post-maoista delle riforme l’età dell’oro del primo decennio è diventata possibile punto di riferimento, mettendo tra parentesi gli eccessi e gli errori successivi al ’56 e conservando il Mao autore della indipendenza nazionale, della riforma agraria e della alleanza di “nuova democrazia”: quello zoccolo duro su cui il Partito comunista cinese fonda la sua legittimità di governo.

La liquidazione dell’integralità dell’operato di Mao, già tentata con il bestseller di Jung Chang e Jon Halliday, Mao, The Unknown Story [Mao, La storia sconosciuta, Longanesi 2006], contestato però per la scarsa accuratezza delle fonti, viene ora rilanciata dall’analisi di Dittőker, basata su ampia documentazione archivistica e storiografica, pur mancando la possibilità di consultare gli archivi centrali del PCC.

Secondo Dittőker l’alleanza di Nuova democrazia, che dà garanzie agli imprenditori privati e

alla piccola borghesia, nonché agli intellettuali che rientrano dall’estero  è un mero espediente tattico, e comincia ad essere scalfita dalle campagne di persecuzione lanciate fin dai primissimi anni 50, con il pretesto della corruzione, dello spionaggio a favore di Taiwan o di attività controrivoluzionarie in genere. Per non parlare dei disastri della riforma agraria, che porta alla liquidazione fisica di più di tre milioni di proprietari terrieri, spesso contadini medi o ricchi denunciati come grandi feudatari, al fine di scompaginare le élite tradizionali nei villaggi e cooptare nuovi beneficiari della redistribuzione delle terre e del potere. Insomma niente di dissimile dalla dekulakizzazione staliniana, smentendo la tesi diffusa che contrappone all’approccio radicale bolscevico le radici agrarie della rivoluzione cinese e la sintonia maoista col mondo contadino. Sembrerebbe che addirittura Stalin abbia raccomandato maggiore prudenza a Mao sui tempi della riforma agraria e della collettivizzazione, senza esserne ascoltato: appena redistribuita, la terra viene messa in cooperativa e poi collettivizzata, nel giro di pochissimi anni, estorcendo un tributo onerosissimo di tasse sulla produzione agricola che serve a finanziare l’industrializzazione.

Anche all’interno della Cina c’è chi si interroga sulla riforma agraria e sulla distruzione del tessuto agricolo tradizionale, come Zheng Shiping, protagonista tra i tanti delle giornate di Tien An’men, e poi lungamente in carcere, autore di una serie di saggi che vengono tradotti in inglese da Andrew Clark e pubblicati dalla Ragged Banner Press. Con lo pseudonimo di Yen Fu (Uomo selvatico) l’autore insegue le labili tracce del nonno paterno, suicidatosi nel 1951, all’epoca della riforma agraria, scrivendo Requiem per un proprietario fondiario, Cronaca della riforma agraria  e della distruzione di una famiglia. La memoria di questo nonno, patriarca del clan in un villaggio collinare del Sud della Cina, era andata completamente dispersa, anche perché i familiari pagarono cara la classificazione in “proprietari fondiari” per origine, diventando bersaglio di ogni campagna di ricerca di possibili controrivoluzionari o elementi di destra. Il padre di Zheng Shiping, così come la madre, figlia di un comandante militare del Guomindang, avevano fatto di tutto per rinnegare quelle origini, impegnandosi in prima fila nella riforma agraria ed in altre mobilitazioni, ma invano. E’ ora il nipote che ricostruisce le vicende del clan ancestrale, elevando una elegia alla cultura armoniosa tradizionale che avrebbe imperato nel Sud della Cina prima che quel tessuto venisse sconvolto dalla guerra, dalla guerra civile e dalle squadre inviate nei villaggi a individuare i bersagli da colpire. Distruggendo le élite tradizionali locali e promuovendo i propri fedelissimi, il nuovo regime si assicura stabilità e controllo, marchiando di infamia una serie di categorie “nere” classificate in base all’origine familiare ed inaugurando una Educazione alla crudeltà di cui l’autore ha fatto personale esperienza. La distruzione dell’empatia è secondo Zheng Shiping una delle più terribili eredità, che si perpetua anche nell’oggi nella sfrenata competizione e nell’individualismo estremo della corsa allo sviluppo e all’arricchimento.

(Silvia Calamandrei)

 

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