Luci e ombre del Dragone. La politica cinese delle “nuove frontiere” in un libro che farà discutere
Rebiya Kadeer
La guerriera gentile
Milano, Corbaccio, 2009.
L’autobiografia di Rebiya Kadeer edita da Corbaccio è stata il suo biglietto da visita nel recente viaggio in Italia per far conoscere la lotta per l’autodeterminazione della popolazione uigura del Turkestan orientale, incorporato nella Repubblica popolare cinese come regione autonoma del Xinjiang (secondo la denominazione cinese “Nuova frontiera”).
La Kadeer ha raccontato la sua vita alla giornalista tedesca Alexandra Cavelius ed il libro si legge come un romanzo d’avventure, con la protagonista predestinata al ruolo di eroina fin dalla nascita nel 1948, alla vigilia dell’occupazione cinese.
Seppellendo il lenzuolo insanguinato su cui è stata deposta la neonata, secondo l’usanza degli uiguri, il padre, un leader indipendentista di questa popolazione mussulmana di origine turca, che abita da secoli gli altipiani sulla via della Seta, ritrova un filone d’oro sui Monti Altay, e subito dichiara che Rebiya non appartiene alla famiglia, ma al popolo. La predestinazione aurea ne forgia il carattere, oppure gli elementi leggendari sono venuti a nutrire l’immagine di questa donna, più volte candidata al premio Nobel, la cui vita si intreccia all’occupazione cinese della regione, una regione chiave dal punto di vista strategico e delle risorse minerarie.
Le vicende di Rebiya sono scandite dalle fasi alterne della storia della nuova Cina, dal Grande balzo in avanti alla Rivoluzione culturale alla liberalizzazione di Deng Xiaoping, alla repressione del 1989, ma è interessante constatare che nel Xinjiang tutti i movimenti e le svolte si tingono dell’aspetto della dominazione su una minoranza nazionale agguerrita, che periodicamente si ribella all’autorità centrale e all’invasione della popolazione Han organizzata dal governo: i cinesi cominciano ad affluire e ad occupare le posizioni chiave fin dai primi anni Cinquanta, e la regione viene utilizzata come zona di deportazione dei prigionieri in campi di lavoro, di stanziamento dell’Esercito, di sperimentazione atomica con danni gravissimi alla salute delle popolazioni, nonché di destinazione degli studenti dopo la Rivoluzione culturale.
E’ con la politica di apertura di Deng Xiaoping e lo stimolo all’iniziativa privata nel commercio che Rebiya assurge a personaggio chiave della spirito mercantile uiguro, fino ad inaugurare un centro commerciale multipiano, a divenire una delle donne imprenditrici più ricche della Cina e ad essere nominata rappresentante all’Assemblea del popolo, mentre si intensificano i suoi viaggi d’affati nelle regioni dell’Asia centrale appena assurte all’indipendenza dopo la disgregazione dell’Unione sovietica (il Xinjiang confina con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan).
Ma proprio la disgregazione dell’impero sovietico preoccupa la dirigenza cinese, che teme la spinta indipendentista uigura. Il tentativo di cooptazione e di allentamento della dominazione, coinciso con la prima fase delle riforme, subisce un’inversione di tendenza e riprende la politica di immigrazione forzata, con una crescita del 30% della presenza di popolazione cinese nel Turkestan orientale, portandola al 60% del totale. Nel 1989 la repressione di giugno di Tienanmen è preceduta nel maggio da una dura repressione a Urumqi della rivolta (trecentomila dimostranti assaltano il palazzo del governo) scatenata da pubblicazioni cinesi offensive della religione mussulmana.
Pur essendo stata ricevuta personalmente dal primo ministro Jiang Zemin nel 1992, per esporre i problemi e le ingiustizie che si verificano nella regione autonoma, la milionaria uigura,incontra difficoltà crescenti a livello locale, soprattutto con il governatore regionale cinese Wang Lequan (tuttora in carica), e si discosta dal collaborazionismo degli imam e degli esponenti della comunità uigura.
E qui subentra la lezione del Tibet. Delegata nel 1994 alla Conferenza mondiale delle donne di Pechino, dove incontra per la prima volta Hillary Clinton, Rebiya ammira le oratrici tibetane che propugnano la causa dell’indipendenza, seguite con attenzione dalla stampa internazionale e si rende conto che l’operato del Dalai Lama deve essere emulato anche per il suo popolo. Sottovaluta però i problemi che incontrerà a occupare lo spazio mediatico globale a causa della diffidenza anti-islamica che i cinesi non mancheranno di sfruttare: il Dalai Lama si è conquistato una popolarità new age ed irenica con cui la causa degli uiguri mussulmani dell’Asia centrale avrà difficoltà a competere, tanto più dopo l’11 settembre. Perfino in occasione delle Olimpiadi del 2008 il governo cinese ha sfruttato la paura del terrorismo islamico per giustificare gli arresti nel Xinjiang.
Il modello Dalai Lama ha comunque concorso alla costruzione del personaggio della “guerriera gentile”, che assieme al secondo marito Sidik, eminente esponente della cultura uigura, si farà fotografare ripetutamente con lui una volta emigrata negli Stati Uniti.
Ad espatriare per primo è il marito, con alcuni dei figli, mentre Rebiya continua ad impegnarsi nella battaglia nel Xinjiang, soprattutto dopo la durissima repressione di una ennesima rivolta anticinese ad Ily nel 1997. Poco dopo aver denunciato i massacri e le violazioni dei diritti umani all’Assemblea nazionale del popolo a Pechino, Rebiya viene destituita dagli incarichi e infine arrestata. Passerà nove anni in carcere, subendo infinite angherie, ma in qualche modo salvaguardata dalla campagna che il marito conduce all’estero assieme alle associazioni per i diritti umani. Il momento di maggiore demoralizzazione è dopo l’11 settembre, quando i cinesi approfittano della campagna contro il terrorismo islamico per associarvi l’intera popolazione uigura.
Grazie alle pressioni internazionali viene finalmente liberata nel 2005, e prende la via dell’esilio.
La sua narrazione è un manifesto per la causa dell’autodeterminazione del popolo uiguro, che accompagna le sue molteplici iniziative negli Stati Uniti ed in Europa.
Dopo il Parlamento europeo, è intervenuta al Parlamento italiano, di fronte alla commissione dei diritti umani e in questi mesi ha denunciato l’opera di distruzione della città antica di Kashgar, che i cinesi hanno intrapreso in nome della “modernizzazione”.
Silvia Calamandrei