La memoria si fa Storia: “Compagni” di Elvira Pajetta
Elvira Pajetta
Compagni
Varese, Macchione, 2015
Con una straordinaria foto di copertina del 1925 che ritrae i fratelli Pajetta e i cugini Berrini ragazzi, ed una nutrita appendice fotografica, Elvira Pajetta ci offre una memoria di famiglia comunista centrata sulle figure del padre Giuliano e della madre Claudia Banchieri ma ramificata verso le generazioni precedenti e i rami collaterali: una “famiglia allargata” come ha scritto Aldo Agosti nella sua recensione sull'”Indice” che riprendiamo qui di seguito:
Passiamoli rapidamente in rassegna, come escono da pagine anche letterariamente apprezzabili, scritte con una controllata ma intensa partecipazione emotiva.
La vicenda di Giuliano Pajetta da sola poteva meritare un libro. E’ il secondo dei tre fratelli: il primo è Giancarlo, lo studente espulso a 16 anni da tutte le scuole del regno, condannato nel 1933 a 21 anni carcere dieci dei quali scontati, il “ragazzo rosso”, per più di quarant’anni uno dei dirigenti del PCI più influenti, ma anche uno dei più popolari alla base, famoso per la sua penna affilata e la sua lingua tagliente; il terzo è Gaspare, molto più giovane, che cade diciottenne nella guerra partigiana.
Tre figli di una madre, Elvira Berrini, a sua volta certamente straordinaria: una donna colta ed emancipata, con gusti e letture più raffinati di quelli che potevano appartenere a una maestra diplomatasi nel 1904, socialista diventata comunista nel 1921. Fonte incrollabile di appoggio morale ai primi due figli nelle vicissitudini del carcere e dell’esilio, poi capace di sublimare il lutto straziante della morte del terzo in un ruolo pubblico da “madre coraggio”, impegnata nella politica cittadina e nella lotta contro la guerra.
Giuliano, nato nel 1915, ha un curriculum che è l’essenza stessa di quello del militante comunista della sua generazione, ma in cui si accumulano e si concentrano con particolare densità gli eroismi e le tragedie che hanno segnato il Novecento. Si sarebbe potuto scrivere anche di lui quello che un funzionario di polizia scriveva di Giancarlo, un fratello maggiore che costituì – e sarebbe rimasto – un esempio anche ingombrante: “in età giovanissima mostrò un morboso interesse per le questioni politiche e sociali”. Aderisce alla FGCI nel 1930, un anno dopo è già esule in Francia in condizioni non facili, fa la scuola di partito a Mosca, combatte e viene ferito nella guerra di Spagna, è internato nel famigerato campo del Vernet poi in quello di transito di Les Milles da cui evade avventurosamente; organizza la Resistenza prima nel maquis in Francia, poi, rientrato in Italia, a Milano, dove viene arrestato e spedito a Mauthausen. Del lager – nel quale ha svolto un ruolo di organizzazione dei prigionieri politici – sarà uno dei primissimi a parlare, in una serie di asciutti articoli apparsi sull’Unità già tra agosto e settembre del 1945.
Ricongiuntosi finalmente alla sua compagna che aveva conosciuto in Francia nel 1934 e al figlio nato tre anni dopo, vive una breve primavera di grandi speranze, con l’elezione alla Costituente e, prima come candidato poi come membro effettivo, nel Comitato centrale del grande PCI. Ma arriva la glaciazione dello stalinismo nel periodo più cupo della guerra fredda: per l’esperienza internazionale che ha maturato è scelto come rappresentante del PCI nel Cominform a Belgrado, ma vi è appena arrivato che si consuma la rottura con Tito, e deve trasferirsi in tutta fretta a Bucarest, mentre si apre l’età delle purghe nelle democrazie popolari. Giuliano suo malgrado ne resterà coinvolto, in una vicenda che è emblematica di quell’epoca tremenda. E’ amico di Laszlo Rajk, il ministro ungherese ex-combattente come lui in Spagna che è una delle prime vittime dei processi-farsa, e per questo il partito comunista di Rakosi lo addita come sospetto, ponendo il veto alla sua rielezione nel Comitato centrale: il PCI abbozza e subisce. Giuliano Pajetta sarà di nuovo riammesso nel CC solo dopo il 1956. La sua fede nel partito e nel comunismo apparentemente non vacilla mai. Scriverà più tardi, in appunti lasciati inediti e ora utilizzati dall’autrice: “quello che ci bloccava non era una paura ma qualcosa di diverso e di più forte ancora, forse è giusto chiamarlo pudore. In ogni caso non era un tabù imposto dall’opportunismo, ma era un nostro modo di negare la realtà quando sentivamo che questa non corrispondeva a quanto avevamo sognato per tanti anni e credevamo di aver conquistato con tanto sangue» (p. 249).
L’altra protagonista è sua moglie Claudia Banchieri figlia di un socialista costretto dalle minacce e dalle aggressioni fasciste ad emigrare con la famiglia in Francia:
“ha molti fratelli e sorelle, tutti comunisti, e lei stessa, quando il marito è a San Vittore, si impegna direttamente nella lotta, dirigendo a Novara i Gruppi di difesa della donna. Poi, condividendo il destino di molte, quasi tutte, le compagne dei dirigenti del PCI, torna ad essere moglie e madre soltanto: “mi sono sentita come mi avessero tagliate le ali”, dirà alla figlia”.
Elvira lavora sulle carte di famiglia e del Partito per ricostruire le vicende di questa coppia coraggiosa e segnata dal coinvolgimento nella grande Storia, genitori che sono stati difficili da vivere e che solo alla distanza riesce a capire e a raccontare, lei che pure ha dedicato gran parte delle sue energie all’impegno politico.
(a cura di Silvia Calamandrei)