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Il libro della settimana…dal 2 al 9 gennaio 2011: “Il tallone del drago” di Paolo Do

Paolo Do

IL TALLONE DEL DRAGO, Lavoro cognitivo, capitale globalizzato e conflitti in Cina.

Roma, DeriveApprodi, 2010

 

La performance della Cina nella crisi e il suo ruolo di arbitro nel mondo globalizzato sono oggetto di continui aggiornamenti dei commentatori occidentali, preoccupati di misurare le scelte riguardo alla parità dello yuan, l’uso delle riserve in dollari, la composizione e quantità delle esportazioni, i dati sui tassi di sviluppo, la possibile bolla immobiliare, le prospettive di espansione dell’enorme mercato interno e l’ipotesi di un intervento sul welfare e sulla redistribuzione delle risorse che risani le tensioni accumulate dalla tumultuosa crescita ineguale.

Il saggio di Paolo Do si inserisce in termini aggiornati in questo quadro, senza la supponenza previsionale di altri osservatori, talvolta improvvisati. Il suo lavoro è frutto di osservazione diretta e “inchiesta” sul campo e letture ampie ed ha una freschezza di ottica anche se pecca qua e là di ingenuità nelle omologazioni e generalizzazioni.

La vera novità di approccio è che Do non è un sinologo ma un “nativo” della società globalizzata, che studia la tematica della formazione e del mercato del lavoro indifferentemente in Cina, in  Italia, nel Regno Unito o negli Stati Uniti e dunque sa cogliere analogie e differenze e concentrare l’attenzione su dinamiche rilevanti per le sorti globali. Questo gli consente di mettere in evidenza come il destino professionale della maggioranza dei laureati cinesi, dopo un investimento straordinario del governo di Pechino in “società della conoscenza”, non sia più facile di quello dei laureati nostrani, e come spesso vengano destinati a impieghi precari e sottoqualificati o rispediti provvisoriamente nelle campagne, rinnovando espedienti del passato senza più giustificazioni ideologiche.

Insomma il “lavoro cognitivo” è mal messo anche in Cina, anche se i livelli più alti della ricerca tecnologica e scientifica cominciano a localizzarsi nelle università e nei centri di eccellenza cinesi, e negli istituti di ricerca internazionali che si insediano in Cina.  La Cina vuole attirare cervelli, ed essere al top delle classifiche delle università del mondo, rivaleggiando con Oxford, Cambridge ed il MIT. Seleziona talenti, nell’ambito di una massificazione dell’insegnamento superiore, ma scarta la massa. Con i progetti  di concentrazione dei fondi in alcune università chiave Pechino è riuscita ad elevare il suo ranking nelle discipline scientifiche, in particolare nei settori delle nanotecnologie, delle cellule staminali e delle energie rinnovabili. E’ di queste settimane la notizia che Shanghai inaugura un Centro di ricerca intitolata al controverso ed innovativo virologo Montagnier, che preferisce proseguire il suo lavoro in Cina saltando di netto gli ostacoli della vecchia Europa

 Tuttavia, salvo per pochi fortunati,  Do sostiene, statistiche alla mano, che “l’ascensore sociale della higher education non porta più da nessuna parte. Nell’epoca del capitalismo cognitivo, l’educazione non solo sembra aver perso la propria efficacia come strumento di promozione sociale, ma sembra anche non essere più in grado di evitare alle nuove generazioni (in particolare dei paesi cosiddetti sviluppati) l’amarezza della mobilità discendente”. In Cina addirittura, “la formazione sembra trasformarsi in un dispositivo capace di garantire al mercato del lavoro un’offerta di manodopera a basso costo e priva di diritti, oggi sempre più scarsa”.

Quest’ultima affermazione, sulla scarsità di offerta in quanto si sarebbe esaurita la disponibilità della riserva di manodopera delle campagne, appare un po’ tranciata con l’accetta. Sarebbe questo ricambio generazionale il “tallone del drago” del titolo (e fa piacere che si sia evitata almeno nel titolo la trappola del “dragone”, storpiatura diffusa dovuta alla pressione dell’inglese e del francese). Secondo l’autore, gli studenti lavoratori più consapevoli e acculturati, che sostituiscono nelle fabbriche i mingong (contadini lavoratori), sono destinati ad aprire forme di lotta più radicali come quelle inaugurate nell’estate del 2010 nelle fabbriche multinazionali del delta del fiume delle Perle.

I giovani istruiti hanno aspirazioni più alte dei loro genitori contadini che hanno alimentato la prima ondata migratoria, non vogliono tornare in campagna, si sentono cittadini e tendono a spostarsi da una fabbrica all’altra e da una città all’altra in cerca di salari più alti. La loro “mobilità” sarebbe l’arma più possente per opporsi allo sfruttamento, combinando la strategia di exit e quella di voice definite dal sociologo Hirshman; Qui è il nucleo centrale della riflessione di Do, enunciato nei seguenti termini:

“Il comportamento di questa nuova generazione di lavoratori sembra mostrarci come, nella soggettività migrante,  l’exit coincida di fatto con la voice, laddove la minaccia di fuga diventa la forma più efficace nel determinare il rapporto di forza nei processi di valorizzazione del capitale.

            Non solo la manodopera pressoché infinita del continente Cina era una favola, ma anche la terra promessa del capitale si è rivelata una semplice fantasia”.

Insomma, secondo Do “è in Asia che possiamo osservare le future prefigurazioni di lotta, dentro le quali forse scorgere le vertigini (?) temporali(?) dell’Occidente e i conflitti a-venire delle nostre società”.

Dunque una nuova stagione in cui “la Cina è vicina” e un ripetersi del cortocircuito planetario per cui a suo tempo le parole d’ordine della Rivoluzione culturale  sembrarono anticipare le lotte studentesche ed operaie dell’Occidente?

Avendo vissuto quell’esperienza ed appreso quanti equivoci non solo semantici si siano innescati in quel cortocircuito inviterei ad una maggiore cautela, anche se alcuni autori cinesi, come Wang Hui, si sono affermati come interpreti autorevoli della critica alla globalizzazione e al liberismo, mentre studiosi come Arrighi hanno teorizzato nel miracolo economico cinese un modello esemplare ed una variabile fondamentale per perseguire la smithiana “ricchezza delle nazioni”: un’economia di mercato non capitalistica che batte l’Occidente nella “lunga durata” e che indica la strada dell’avvenire.

Paolo Do ci fornisce molti spezzoni di informazione sul miracolo cinese e sulle dinamiche del mercato del lavoro, lumeggiando anche situazioni italiane di penetrazione del modello cinese ad alta intensità di lavoro. Constatando situazioni di altissimo sfruttamento e privazione dei diritti negli sweatshop del pratese, nella civile Toscana, dove si produce per l’alta moda ed il design, sottolinea la “compresenza di ció che una volta si chiamava “primo” e “terzo” mondo” all’interno degli stessi assi spazio-temporali: il post-fordismo si caratterizza per la coesistenza di regimi di lavoro molteplici; che vanno dal lavoro intensivo, a quello tutelato, a quello creativo. Pezzetti di Cina cominciano ad esistere in Italia, cosí come Marchionne vuole innestare i moduli produttivi americani a Pomigliano e Mirafiori.

            Utili anche le informazioni che ci fornisce l’autore sulla penetrazione cinese in Africa, in termini di investimenti ed esportazione di manodopera, nonché la riproduzione del modello delle zone speciali alla Shenzhen in Egitto cosí come in Moldavia. Per non parlare del nuovo ruolo della marina cinese nelle acque internazionali, nella lotta contro la prateria, e l’assorbimento di molti laureati nell’Esercito popolare di liberazione, che ha compiuto un salto tecnologico e cognitivo  straordinario. Interessanti i commenti sugli sviluppi nella Energy technology e sulla corsa al solare nel paese che è il più grande consumatore di carbone.

            Più carenti invece le considerazioni sugli aspetti politico istituzionali, la tenuta del Partito-Stato, e il consenso nazionalistico creato dall’affermazione cinese nel mercato globale. Ma soprattutto sottovalutato è il peso delle campagne e del destino contadino, componente fondamentale della rivoluzione e della modernizzazione cinese.

            Giustamente nel primo capitolo Do sottolinea la fortissima disomogeneità della Cina, e dichiara come la sua indagine si sia concentrata nelle metropoli e nella zona del delta del fiume delle Perle (Guandong e Hongkong): sono le zone dove più intensa è stata la presenza degli investimenti stranieri e dove si è concentrato il vertiginoso sviluppo urbano ed industriale. In queste zone l'”arricchirsi è glorioso” di Deng Xiaoping puó essere cambiato di segno ed utilizzato come legittimazione degli scioperi per gli aumenti salariali dei giovani studenti lavoratori. Ma accanto a questi nuovi soggetti c’è una stratificazione complessa, che va dai nuovi ceti medi urbani ai migranti in corso di regolarizzazione, dai burocrati agli imprenditori e speculatori, dagli operai delle fabbriche di stato all’enorme massa contadina delle zone rurali e remote, ed è su questo groviglio di contraddizioni che si misura la capacità di tenuta della “società armoniosa” perseguita dalla dirigenza del Partito comunista cinese.

Spezzoni di Cina in Occidente, e spezzoni di Occidente in Cina, ma l’amalgama di questi spezzoni avviene pur sempre in un brodo di cultura contrassegnato da tradizioni politiche, giuridiche e culturali specifiche. Insomma ci sono infiniti glocal da indagare e con cui fare i conti, perché le esperienze possano realmente entrare in comunicazione..

(Silvia Calamandrei)

 

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