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I luoghi della cultura e della storiografia: “Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria” di Mario Isnenghi

Mario Isnenghi

Vite vissute e no. I luoghi della mia memoria

Bologna, Il Mulino, 2020

 

Densissima lettura, questa autobiografia intellettuale di Mario Isnenghi, che ci offre un cinquantennio di storia della cultura e dell’insegnamento in Italia, tra liceo e Università, radicato nel Triveneto ma spaziante verso Torino e più in generale sulla dimensione nazionale, attraverso le riviste, le collaborazioni ai giornali, i ruoli mai marginali nelle associazioni universitarie, nel sindacato CGIL scuola, nella rete degli istituti della resistenza. L’elaborazione del proprio profilo e del proprio percorso, con la capacità analitica e senza infingimenti dello studioso che tante biografie intellettuali ha elaborato e ha insegnato ad elaborare ai suoi tanti allievi.

Percorso non lineare, come i tanti che ha ricostruito, offrendoci storie italiane nella loro complessità di intrecci e di svolte, e nelle loro radici territoriali e culturali. Cattolico in gioventù, poi socialista, poi militante della Nuova sinistra, in area Manifesto, per poi divenire riferimento accademico ed istituzionale, senza perdere la vis polemica ed il gusto del paradosso e della contraddizione.

La fedeltà è soprattutto al rigore degli studi, alla lezione della complessità, contro le semplificazioni progressivamente invalse sia nei corsi di studi che nel dibattito storiografico. C’è orgoglio del proprio operato, del magistero trasmesso e dei riconoscimenti ricevuti e al tempo stesso consapevolezza di un declino culturale e politico dilagante, che rende sempre più difficile una comunicazione “alta”. La fedeltà è al metodo del confronto, del lavoro collettivo, praticato nei seminari organizzati a Ca’ Foscari, con un lavoro maieutico che valorizza i talenti degli allievi e ne stimola le curiosità, avviandoli a carriere che il taglio dei fondi di ricerca e lo svilimento delle università ha condannato a sopravvivenze precarie.

Tante altre fotografie come questa di Isnenghi servirebbero di questa nostra Italia culturale fatta a pezzi, per ricomporne i frammenti e valorizzarne le storie, le avventure collettive, i momenti di collaborazione fattiva al di là degli schieramenti. L’autore de I vinti di Caporetto (1967) e del Mito della Grande Guerra (1970) approdato nel centenario del Risorgimento e nel centenario della Grande Guerra a luminare semi-istituzionale,- e lo abbiamo ospitato a Montepulciano in tale veste, con grande stimolo per gli studenti dei licei- non cessa di misurarsi con gli intellettuali che si fanno “catechisti del popolo, pedagoghi della nazione, intellettuali di Stato” una volta fallita la rivoluzione auspicata. Quando studia il passato, risorgimentale e fascista, ragiona anche sul presente.

Il 1979 è l’anno della pubblicazione di Intellettuali militanti e intellettuali funzionari (Einaudi) e di L’educazione dell’italiano (Cappelli), ma anche del processo al 7 aprile, in cui sono coinvolti “vecchi amici” come Toni Negri, con il quale Isnenghi ha condiviso la militanza nell’Azione cattolica e poi la svolta socialista negli anni cinquanta. Ne tratta con onestà, marcando le differenze, ma senza rinnegare la contiguità:

miei vecchi amici e compagni entrano in carcere e, prima di svincolarsene, si avviano ad anni e anni di vicissitudini giudiziarie, perché hanno preso troppo sul serio e astratto dalle circostanze fattuali le parole, creduto nella rivoluzione e voluto «fare la storia»; io mi occupo del passato e scrivo libri sul vissuto e la storia fatta dagli altri. (Vero che la parola «rivoluzione» non è del mio lessico, l’ho sempre surrogata con un più blando e meno cogente «alternativa», però di «sistema»).

Si interroga sulla propria possibile posizione di “pesce in barile” in Facoltà negli anni Settanta:

Non ero anch’io di sinistra, non eravamo – su posizioni e con ruoli al momento diversi – tutti attori di un campo politico in ebollizione e in sofferenza? Questo non era un discorso, un ragionamento dispiegato, solo un retropensiero afflitto e impotente, che cerco di dissotterrare. Fantasmi di vite non vissute. Va da sé che quel barlume di complicità perplessa e inconcludente serve anche a legittimare accomodamenti, i «se» e i «ma», nell’ora – per altri – dei «senza se e senza ma»: lo vedo da me, e certamente non doveva essermi del tutto ignoto neanche allora.

Ma rivendica la sua terzietà:

Il fatto è che – come pochissimi altri – pretendo di essere «terza via», né con gli autonomi né a priori, sempre e comunque, con le istituzioni così come sono e con le procedure in corso, accademiche e giudiziarie.

E ancora:

io e altri, di sinistra come me, stiamo in bilico un po’ più in qua, e qualche amico e compagno di quindici o vent’anni prima s’è spinto invece molto più avanti e sta in bilico molto più in là, certo, ma questo itinerario quando è che cessa di essere lo stesso itinerario, a tappe, e diventa o è diventato un itinerario diverso? Nei nostri studi e nelle nostre biblioteche – di tutti – c’erano e ci sono, più o meno, gli stessi libri: la Costituzione, si capisce, e le Lettere dei condannati a morte della Resistenza, ma anche la lotta di classe, il Che fare? di Lenin e la Rosa Luxemburg di Lelio Basso. «Rivoluzione», pure, rientra in un lessico desueto, ma non è parola estinta o espunta, sta lì negli scaffali, in attesa di riattualizzarsi e rientrare in gioco, in qualche altra vita, nostra, della classe, del paese. «Il momento buono» dicevano i resistenti. Il momento buono è la storia, e la storia la fa l’uomo. Questione di storicizzazione delle scelte, certo, e di realistica lettura della fase.

Insomma, i percorsi della seconda metà del Novecento possono essere ricostruiti anch’essi con lo strumentario applicato ai tanti intellettuali, letterati e scrittori impegnati nelle fasi alte della storia d’Italia, ma stavolta vengono raccontati in prima persona.

Preziose le notazioni sulla storia delle riviste storiografiche e culturali e le loro vicissitudini, fino alla loro malaugurata estinzione. Ma anche su questo i giovani storici potranno indagare più a fondo, se riusciranno a tessere le fila di genealogie lasciate in eredità. La semina di Isnenghi è stata ricca, e ci sono tanti, non necessariamente in solide situazioni accademiche, che pur precariamente continuano a tenere un profilo alto di indagine. Fa piacere vedere menzionati ricercatori dentro e fuori l’Università con i quali abbiamo avuto occasione di collaborare, da Alessandro Casellato e Valeria Mogavero all’outsider Angelo Tonnellato.

(Silvia Calamandrei)

 

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