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Due saggi su Piero Calamandrei

Un’opera e un saggio dedicati a Calamandrei

Andrea F. Patergnani, Tra politica e diritto, Piero Calamandrei e il Partito d’Azione, Edizioni Diodati, Padova 2019

Simone Levis Sullam, Piero Calamandrei e i “fantasmi” del fascismo e dell’antifascismo, Note su un percorso politico, «Contemporanea» XXIII, 2, aprile-giugno 2020

 

Due letture del percorso di Calamandrei, l’una classica e ispirata dal taglio azionista della biografia di Akessandro Galante Garrone, l’altra più problematica e dissacrante, nella linea della prefazione di Sergio Luzzatto a Uomini e città della resistenza e della polemica di Cipriani contro la collaborazione al Codice di procedura civile. Entrambe prescindono dal Calamandrei letterato e da scritti significativi come l’Inventario della casa di campagna, di cui alcuni commentatori hanno pur sottolineato la valenza non solo intimistica: c’è chi, come la Mrazkova, vi ha individuato addirittura la fucina del “linguaggio della libertà” di Calamandrei, di quella sua capacità comunicativa nella narrazione della Resistenza che ne fa tuttora una fonte inesauribile di citazioni.

Talvolta le frasi di Calamandrei, soprattutto negli anniversari, sembrano diventare come i messaggi dei Baci perugina, tanto ricorrono anche vacuamente: non a casa quella sulla “libertà come l’aria” è stata utilizzata anche da Berlusconi e Salvini, che certamente non recitano L’avrai camerata Kesserling. Bene dunque che si continui a studiarne il percorso, ad individuarne gli snodi e a non appiattirlo agiograficamente.

Il volumetto di Patergnani è un utile compendio biografico e bibliografico, aggiornato, che dedica un capitolo al Partito d’Azione, considerandolo una componente significativa della identità repubblicana e costituzionale, purtroppo smarrita e schiacciata tra i partiti di massa. Liberalismo e socialismo coniugati nella fede nella nuova Costituzione, scaturita dal patto resistenziale: questo il contributo del giurista e del costituente Calamandrei.

L’indagine storiografica di Levis Sullan interpella invece le contraddizioni del Calamandrei in quanto cultore della legalità, culto che gli avrebbe tarpato le ali nell’opposizione al fascismo fino a farlo collaborare con Grandi alla redazione del Codice di procedura civile. Il saggio rivisita le ambiguità dell’interventismo giovanile, la scelta di restare in patria dopo il delitto Matteotti a differenza degli amici esuli e di giurare fedeltà al regime per proseguire nell’insegnamento universitario, l’accettazione di collaborare alla redazione del codice, la “fuga dall’impegno” in un’opera come l’Inventario o nelle passeggiate con gli amici, tutti antifascisti attendisti, il legalitarismo che lo allontana dalla Resistenza. Di qui il sentimento di colpa e la necessità di espiazione che animerebbe il suo impegno dopo la Liberazione, facendosi cantore epico di una guerra che non ha combattuto.

Lo schiacciamento di Calamandrei nella zona grigia operato da Levis Sullam rischia di smarrire elementi significativi di un percorso più accidentato, fatto di alti e bassi, che mi pare Mario Isnenghi abbia saputo cogliere e ben evidenziare nella sua introduzione alla riedizione integrale dei Diari 1939-451:

“La labilità dei confini, la doppiezza consapevole, la promiscuità di chi, da antifascista o da non immedesimato nel fascismo, continui a vivere in Italia – senza le liberatorie rotture nette del carcere, del confino o dell’esilio- costituiscono, al di là della dimensione autobiografica, il terreno di coltura, la cifra di un indeterminato e forse anche maggioritario numero di italiani fra le due guerre, con e senza tessera, in una società composta, nel grado di assuefazione, di differenti cerchie e microclimi. L’eccezionalità di questa testimonianza sta nel far ritrovare loro, indirettamente, visibilità e parola”.

 

Il ritratto di una specie umana, di “color che son sospesi”, da parte di un diarista d’eccezione.

È vero che per collocarlo nella zona grigia Levis Sullam utilizza quanto scritto dal figlio Franco nel 1982, ma forse non coglie abbastanza il “chiaroscuro”, cioè le sfumature. Ad esempio, forse c’è una idealizzazione da parte di taluni sulle passeggiate degli anni trenta del gruppo di antifascisti della domenica animato da Calamandrei e Pancrazi, ma è pur vero che tra gli autisti di quelle scampagnate ci fu anche Nello Rosselli, il cui assassinio interrompe una frequentazione assidua. E quando Calamandrei e Pancrazi commentano la conferenza di Marchesi su Tacito, come ricostruito da Canfora nel suo recente ampio studio sul latinista, il confronto tra i comportamenti di professori universitari in cattedra non propende in quel caso a favore di Calamandrei?

Per quanto riguarda la collaborazione al Codice e la relazione con Grandi rimando al magistrale saggio di Melis e Morricone incluso nel volume del Mulino2, ma non sottovaluterei la valenza dello scontro con i giuristi filogermanici propensi al diritto libero nella difesa della legalità tout court.

Che ci sia una evoluzione nella concezione della legalità in Calamandrei, con una cesura che si colloca nell’inverno 43-44 (Appunti sulla legalità e saggio su Beccaria) e che approda alla legalità della Costituzione democratica, alle leggi di Antigone, è argomento già delle riflessioni di Paolo Grossi, riprese negli studi di un giovane giurista come Brando Mazzolai.

Riprendo dal saggio di Paolo Grossi Lungo l’itinerario di Calamandrei 3quando, dopo averne descritto il culto illuministico della legalità, che lo sorregge ma lo limita negli anni del fascismo, ne ricostruisce la svolta, che approda al discorso del 1947 come Presidente del CNF, in memoria dell’avvocato Bocci. in cui cita le leggi di Antigone, riprese poi come riferimento nell’ ultims arringa in difesa di Danilo Dolci:

Ma Calamandrei ha gli occhi ben aperti sul mondo, e quegli occhi non possono lasciare a lungo impassibile un personaggio segnato da una probità intellettuale a tutta prova. E accanto alle conclamazioni legalistiche affiorano dubbii, tracce di incrinature che si stanno generando negli strati più riposti dell’animo.

Alcuni giorni dopo aver tenuto la sua conferenza legalistica presso la FUCI fiorentina, il 27 gennaio del 1940, egli non può fare a meno di annotare sul suo ‘Diario’, strumento oggi per noi preziosissimo, alcune domande che non hanno una risposta pronta ma che egli vuol proiettare nel profondo della sua coscienza:”Ma siamo poi nel vero a difendere la legalità? E’ proprio vero che per poter riprendere il cammino verso la ‘giustizia sociale’ occorre prima ricostruire lo strumento della legalità e della libertà? Siamo noi i precursori dell’avvenire o i conservatori di un passato in dissoluzione?”4. E ha fatto benissimo la nipote Silvia a trascrivere il frammento di diario in esergo al libretto laterziano. L’impassibilità sta cedendo alla disponibilità e all’ascolto, la certezza al dubbio; e sulla muraglia prima compatta comincia a serpeggiare una incrinatura.

Ancora. Se, a fine’44, egli assume a oggetto del suo ‘corso’ costituzionalistico (già lo sappiamo) il tema della legalità, egli non lo risolve e non lo chiude nel vecchio culto della legge pur che sia, contenitore quasi sacro e insindacabile nei suoi contenuti; avanza – invece – una distinzione fra ‘legalità in senso formale’ e ‘legalità in senso sostanziale’, complicando il paesaggio giuridico e insinuando una nozione assolutamente nuova nella storia del legalismo moderno, nuova perché fa capo a precisi contenuti politico-sociali. ‘Legalità in senso sostanziale’ significa, infatti, secondo questo parzialmente uomo nuovo, “partecipazione di tutti i cittadini alla formazione delle leggi” e “preventiva delimitazione dei poteri del legislatore”5, e l’insinuazione

più corrosiva, più alterante i consolidati sacrarii mitologici è la venatura di sfiducia nel legislatore, o, almeno, l’eclisse dell’affidamento completo, assoluto, di prima.

Né dobbiamo omettere di ricordare una circostanza già puntualizzata poco sopra, e qualificata come significativa: a fine’44 si propone di scrivere un libro sulla legalità che non scriverà mai, arrivando solo a buttar giù un articolo sulla ‘crisi della legalità’, dove la adamantina, pura e semplice, nozione di legge attenua il suo carattere di schema formale a-contenutistico per diventare “auto-disciplina voluta”, unica garanzia per evitare alla legge il marchio infamante di “tirannia imposta”, rispetto alla quale si imporrebbe il deflagrante dovere civico di trasgredirla.

E mi piace riprendere anche una sua considerazione conclusiva nel medesimo saggio:

Ho detto anche che il termine ‘itinerario’ mi pareva efficace per identificare un percorso né piatto né immobile né uni-lineare, ma, al contrario, reso elastico dalla disponibilità del camminatore. Un osservatore superficiale, più che di disponibilità, potrebbe sentirsi autorizzato a parlar di incoerenza di fronte a ripensamenti sostanziali e sostanziosi da parte di Calamandrei, per giunta confessati pubblicamente con l’assoluta schiettezza che ho più sopra verificato.

Io non ho esitazione nel rifiutare una così riduttiva valutazione. Calamandrei è, piuttosto, un personaggio che ha vissuto intensamente il proprio tempo, un tempo storico segnato da rivolgimenti e mutamenti pesantissimi sotto ogni profilo; ne ha letto attentamente i segni e si è rifiutato di ingabbiarli in artificiose e costringenti armature.

Un itinerario complesso e sofferto da ricostruire in tutte le sue sfumature, se ci si vuole spiegare perché le sue parole risuonino ancora pregnanti e cariche di verità, e non vuota retorica.

(Silvia Calamandrei)

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