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Un importante studio su Piero Calamandrei: “Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940)”

Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940)

a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei, Francesco Marullo di Condojanni 

Roma, Il Mulino, di prossima pubblicazione


La storiografia giuridica ha declinato con grande varietà di accenti la vexata quaestio della partecipazione di Piero Calamandrei all’elaborazione del codice di procedura civile del 1940, fra appassionate difese e polemiche letture critiche dell’operato dell’insigne giurista fiorentino. Senza alcuna pretesa di esaustività, il pensiero va alle belle pagine che Alessandro Galante Garrone dedicò al suo amico e maestro nella biografia del 1987 recentemente ripubblicata, alle equilibrate interpretazioni di Stefano Rodotà e Michele Taruffo, fino alle severe conclusioni di Franco Cipriani. In questo policromo mosaico ermeneutico si inserisce ora una nuova tessera che offre preziosi elementi di novità sul piano delle fonti e accurate ricostruzioni storico-filologiche in grado di illuminare il contesto, la genesi, i moventi e gli effetti di quella collaborazione all’opera di codificazione che nella biografia calamandreiana resta un nodo problematico e un tema storiograficamente aperto. E’ in uscita, infatti, per i tipi dell’editore Il Mulino, a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei e Francesco Marullo di Condojanni (anche autori di incisivi interventi), il volume collettaneo “Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940)” (pp. 312, € 25,00), che colma finalmente un’avvertita lacuna negli studi e nella pregevole collana della “Storia dell’avvocatura italiana” patrocinata dal Consiglio Nazionale Forense di cui Calamandrei fu presidente dal 1946 al 1956.

Il nostro codice di rito, al quale si lavorò fra il 1939 e il 1940, è tuttora in vigore e, nonostante i numerosi interventi di revisione e “manutenzione” nel frattempo attuati, è rimasto sostanzialmente immutato nell’impianto e nell’assetto complessivo. Questo compendio di norme procedurali coniate al culmine del ventennio fascista, in pieno regime liberticida, è sopravvissuto alla rovinosa caduta del totalitarismo mussoliniano e transitato pressoché indenne nel nuovo corso repubblicano e democratico. Un’anomalia e una contraddizione solo apparenti, come si evince dalla lettura di questo volume, che include saggi e documenti editi e inediti che confutano nettamente gli assunti critici di quella parte della dottrina processualistica che ancora di recente ha sostenuto la tesi del “codice fascista” e “schiettamente mussoliniano”, fedele proiezione dell’autoritarismo inquisitorio del regime. Fu, invece, un codice realmente “liberale e democratico”, come affermò lapidariamente lo stesso Calamandrei nel 1947, quando testimoniò nel processo penale contro l’ex ministro della Giustizia Dino Grandi, che, rifugiatosi in Portogallo dopo il 25 luglio 1943, gli aveva chiesto ripetutamente di difendere le sorti del codice di procedura civile quale “codice degli italiani, non del fascismo” (nell’appendice documentaria del volume sono riprodotti proprio gli originali, inediti, del carteggio fra Grandi e Calamandrei).

“Cerco cervelli, non tessere”, aveva lasciato trapelare nel 1939 il nuovo Guardasigilli Grandi, accingendosi a riannodare i fili spezzati di un’opera di codificazione che sul terreno della procedura civile aveva generato, sin dal periodo giolittiano, numerosi tentativi di riforma non andati a buon fine. E per questo contattò i tre maggiori processualisti dell’epoca, Piero Calamandrei, Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti – tutti notoriamente antifascisti, i primi due neppure tesserati – in qualità di consulenti tecnici della commissione ministeriale incaricata della stesura delle norme del nuovo codice di rito a partire proprio dalle radicali osservazioni critiche che i tre autorevoli giuristi avevano formulato nei confronti del progetto lasciato in eredità da Arrigo Solmi, predecessore di Grandi.

Il diario e l’epistolario di Calamandrei, puntualmente richiamati in questo volume, già restituivano una preziosa chiave di lettura del groviglio di sentimenti contrastanti e del conseguente travaglio interiore di un intransigente giurista antifascista alieno da ipocriti sdoppiamenti etici e da qualsiasi servilismo intellettuale, in equilibrio fra le ragioni della scienza e i richiami della coscienza, orgoglioso per la constatazione che quando il fascismo aveva bisogno di “studiosi seri, doveva andare a mendicarli tra gli antifascisti”, desideroso di onorare la sua missione accademica senza scivolare nella zona grigia del cedimento morale, stretto fra l’incudine delle accese perplessità di molti amici e conoscenti – i quali lo esortavano ad astenersi da una collaborazione che, lungi dalla sua apparente natura “tecnica”, avrebbe politicamente contribuito a far fare bella figura al regime – e il martello dell’ambizione di trasfondere nell’opera di codificazione la lezione del suo maestro Giuseppe Chiovenda, riconducendo i lavori nell’alveo del sistema della legalità e sui saldi binari della tradizione romanistica contro i paventati deragliamenti del “diritto libero” di marca nazista e della “giustizia del caso per caso” di matrice bolscevica, perniciose spinte disgregatrici della certezza del diritto e delle libertà degli uomini nell’epoca più buia del XX secolo, quando “a poco a poco nella nostra legislazione si introduceva la peste totalitaria”.

Questo libro, oggi, ci offre un quid pluris che suffraga la bontà delle orgogliose e polemiche rivendicazioni di coerenza e onestà intellettuale con le quali Calamandrei riaffermò e giustificò, per tutto il resto della sua vita, l’utilità della sua partecipazione ai lavori del codice (che in epoca repubblicana gli fu poi più volte ruvidamente rinfacciata dagli avversari politici), sul presupposto dell’ineludibile dovere di non rifiutare il suo apporto “a una legge che non era espressione di un regime, ma di un cinquantennio di studi e che per questo si prevedeva destinata a sopravvivere al fascismo”. Grazie alla disponibilità di Silvia Calamandrei (curatrice delle opere e custode della memoria del suo indimenticabile nonno) e all’archivista Francesca Cenni, dalla Biblioteca Comunale e Archivio Storico di Montepulciano emerge finalmente – e viene per la prima volta pubblicata – la versione originale manoscritta della lunga, dotta, corposa e dettagliata Relazione al Re di presentazione del nuovo codice stesa da Calamandrei quale ghost-writer del ministro Grandi. La lettura comparata – frutto dello scrupoloso lavoro filologico del ricercatore Giulio Donzelli e del magnifico saggio, di rara finezza analitica, degli storici Guido Melis e Antonella Meniconi – del manoscritto di Calamandrei e della relazione definitiva firmata da Grandi e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ci consente ora di inquadrare storicamente l’impresa e, soprattutto, di distinguere quanto in quel testo sia ascrivibile al giurista fiorentino e quanto, invece, sia da attribuire al Guardasigilli e ai suoi collaboratori sotto forma non solo di mere operazioni di maquillage terminologico (con l’inesorabile sostituzione dell’espressione “Stato autoritario”, usata da Calamandrei, con “Stato fascista” et similia), ma anche di non infrequenti interpolazioni esplicative e inserti di esaltazione del regime volti a stendere una mano di vernice fascista e di retorica celebrativa sulla analisi calamandreiana che nell’economia dei lavori di codificazione dava priorità al fattore tecnico e scientifico – sottolineando la centralità della dottrina giuridica e la feconda eredità di un settantennio di studi – e lasciava in ombra il fattore politico e, quindi, il ruolo del regime. Era l’inevitabile prezzo da pagare in cambio dell’ampia libertà e autonomia concesse a Calamandrei sugli aspetti fondamentali (quelli tecnico-giuridici, recepiti senza sostanziali interventi correttivi) della riforma, maturata in un frangente storico in cui il ministro e il professore, malgrado le irriducibili distanze politiche, lavorarono in un clima di rispetto reciproco e seppero avanzare abilmente su un crinale sottile. Il primo garantendo copertura politica nonostante le accuse dell’ala più intransigente e oltranzista del PNF, refrattaria alla collaborazione di giuristi non allineati. Il secondo, occhiutamente sorvegliato dalla polizia politica nei suoi spostamenti fra Firenze e Roma e frequentemente minacciato dai fascisti fiorentini, profittando di quei significativi spazi di manovra per delineare un’architettura codicistica scevra da spigolosità inquisitorie e derive autoritarie, che potesse spuntare o limare, sul terreno della procedura civile, quegli aculei ideologici che il regime aveva affilato dieci anni prima nei codici penale e di procedura penale, e quindi consegnare agli operatori del diritto e ai cittadini utenti del servizio giudiziario strumenti normativi tesi a rendere giustizia in modo equo, rapido ed efficiente.

Ripercorrendo i documenti editi e inediti inclusi in questo bel volume, fonte di innumerevoli spunti di riflessione e ricco di preziosi riferimenti bibliografici, il nuovo processo civile recante l’impronta profonda di Calamandrei appare il frutto di un compromesso di alto profilo e una equilibrata terza via fra il superato sistema liberale e individualista del vecchio codice del 1865 e le teoriche radicalmente stataliste e autoritarie che avrebbero rischiato di affermarsi accedendo ad un orientamento improntato ad una eccessiva pubblicizzazione del processo civile. Se la direttiva fondamentale della riforma consisteva nel sensibile incremento dei poteri del giudice per la direzione del processo e l’accertamento della verità dei fatti, il rafforzamento dell’autorità dello Stato nel processo doveva trovare – come in effetti ha trovato, grazie al decisivo contributo di Calamandrei – un argine e un bilanciamento nella perentoria difesa del principio dispositivo, opposto a quello cosiddetto inquisitorio, nonché nella valorizzazione della dignità e del ruolo degli avvocati, non asserviti al giudice, ma servitori del diritto alla stessa stregua del giudice, in quell’ottica collaborativa e mai oppositiva che ritroviamo anche nelle felici pagine del celeberrimo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Il risultato – spiega il processualista Claudio Consolo nel suo intervento – almeno fino alla prima importante novella del 1950, “fu un Codice raffinato, complesso, ben scritto, ispirato al principio dispositivo di parte, solo moderatamente autoritario”. E non si può non condividere la conclusione di Romano Vaccarella, secondo cui Calamandrei, al termine della lunga gestazione del nuovo codice di rito, ebbe buon gioco nel ribadire la convinta valutazione di aver vinto la sua battaglia perché, sebbene l’Italia, come il resto dell’Europa, fosse precipitata nel gorgo più nero della sua storia recente, nel vortice di una immane crisi della legalità che stava travolgendo i principi fondamentali del diritto e le costruzioni care alla nostra gloriosa tradizione giuridica, le spinte esasperatamente inquisitorie di cui era stato espressione il progetto Solmi non avevano trovato consacrazione nel nuovo codice, energica riaffermazione del sistema della legalità, e quindi in Italia, anche in quel buio momento, la tutela dei diritti soggettivi privati è stata assicurata da un vero processo civile.

Giova ricordare, fra l’altro, che l’impegno di Calamandrei non si esaurì nella partecipazione ai lavori di revisione del progetto codicistico ultimato nel 1940 e nella stesura della citata Relazione, mirabile affresco di politica del diritto di raffinata eleganza, severo rigore argomentativo e cristallina chiarezza, ma proseguì l’anno successivo, nella delicata fase attuativa della riforma la cui entrata in vigore era stata posticipata al 1942, con la pubblicazione di acuti saggi giuridici (uno dei quali, “Il nuovo processo civile e la scienza giuridica”, viene opportunamente riproposto in questo volume), di un primo fondamentale vademecum per gli operatori del diritto (Le “Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice”) e di un arguto libretto in forma dialogica intitolato “Delle buone relazioni fra i giudici e gli avvocati nel nuovo processo civile”, con l’intento di radicare, in tutti gli attori della scena giudiziaria, un nuovo habitus mentale e una adeguata cultura professionale quali presupposti essenziali della buona riuscita della riforma. Un impegno di ampio respiro dettato sì dai doveri professionali, ma prima ancora dall’intima consapevolezza del carattere non effimero di un codice nella cui elaborazione Piero Calamandrei diede prova di indiscussa statura accademica, profonda lungimiranza e grande onestà intellettuale.  “Un codice destinato a durare” (così recita il titolo del bel saggio di Silvia Calamandrei), come l’altra impresa normativa alla quale, pochi anni dopo, egli avrebbe atteso, sempre da protagonista, in un nuovo e diverso contesto politico-istituzionale: la Costituzione, che nei suoi auspici doveva essere “presbite”, ossia capace di vedere meglio le cose lontane, e quindi destinata a durare.

Sconfitto politicamente in alcune battaglie congiunturali, Calamandrei si è rivelato vincente sulla lunga distanza: la permanente vigenza del codice di procedura civile e della Costituzione lo comprova con estrema chiarezza. E questo volume, che offre nuove basi valutative e copiosi spunti di approfondimento su un tema – come si diceva – storiograficamente aperto, ci aiuta ad apprezzare con il dovuto equilibrio storiografico questo insigne giurista, letterato e politico del Novecento italiano, a debita distanza dallo stucchevole incenso delle agiografie e dal fumo acre delle rozze polemiche demolitorie.  

(Francesco Moroni)

 

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