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Sguardo europeo sulla Cina di ieri…e oggi?: “Il saccheggio del Palazzo d’Estate” di Pierre-Jean Remy

Ripescando a ritroso in biblioteca, un romanzo datato ma evocativo di una fase delle relazioni tra l’Occidente e la Cina, prima della scoperta dell’Esercito di terracotta

Pierre-Jean Remy

Il saccheggio del Palazzo d’estate

Milano, Feltrinelli, 1971

 

La versione italiana del libro apparteneva alla biblioteca di mio padre Franco Calamandrei, che aveva una sezione di approfondimento sulla Cina, paese in cui era stato corrispondente dell'”Unità” dal 1953 al 1956. Ora si trova nell’Angolo cinese della Biblioteca di Montepulciano nell’ambito della donazione dei libri di Piero e Franco Calamandrei e di Maria Teresa Regard relativi alla Cina. Personalmente avevo l’originale francese del libro, in edizione tascabile successiva, ma non l’avevo mai letta, ed ora la recensisco aggiungendola alla donazione. Mio padre invece credo lo avesse letto con attenzione, nei primi anni Settanta, quando io ero maoista e lui ipercritico della Rivoluzione culturale.

 

C’è la presa del Palazzo d’Inverno e il saccheggio del Palazzo d’Estate, la presa della Bastiglia e il sacco di Roma: simboli di un nuovo inizio, di una rivoluzione in atto, e simboli di perdita, sconquasso, sconfitta.

Perché il giovane diplomatico francese Pierre Jean Remy intitolò il suo romanzo ambientato a Pechino ispirandosi ad un evento funesto nelle relazioni tra la Cina e l’Occidente, lo smacco inflitto nel 1860 dalle potenze occidentali alla vecchia Cina imperiale, lasciando in rovine il prezioso palazzo Yuanming Yuan costruito nel XVIII secolo sotto i regni di Kangxi, Yongzheng e Qianlong?

Il titolo evoca la distruzione della Cina ammirata dai Gesuiti, che avevano aiutato a progettare quei giardini; una ferita inferta all’immaginario cinese, all’orgoglio di quella civiltà millenaria, una ferita mai risanata che ha alimentato risentimenti e contrasti.

Remy, che è tra i primi arrivati nell’ ambasciata francese riaperta nel 1964, assiste in diretta allo scatenarsi della Rivoluzione culturale, e ne fa lo sfondo del suo romanzo con una pluralità di protagonisti, convenuti in Cina lasciandosi alle spalle le più svariate esperienze, fuggitivi di drammatici e sanguinosi eventi in Italia, Algeria, Indocina, Inghilterra, Germania, Olanda e Stati Uniti. La Cina li accoglie se le sono funzionali, ma li respinge e rigetta appena diventino fastidiosi. E resta tutto sommato impenetrabile, come lo era la Città proibita all’epoca di Victor Segalen e del suo romanzo René Leys (1911, appena riedito in Italia da ObarraO).

Perché è ancora quel testo degli inizi del secolo ad ispirare e ossessionare alcuni dei protagonisti, alter ego dell’autore, il quale ne alterna le citazioni alla propria narrazione ed attribuisce ad uno dei personaggi il desiderio di ritrovare negli archivi dell’ambasciata le tracce lasciate da Segalen prima di avviare le sue peregrinazioni attraverso la Cina alla ricerca della grande statuaria antica. La ricerca riguarda anche eventuali testimoni sopravvissuti ed il possibile ispiratore del personaggio di René Leys. Insomma, mentre le Guardie rosse imperversano a distruggere i quattro vecchiumi, a sequestrare libri mobili ed oggetti preziosi svuotando le case dei borghesi e degli intellettuali privilegiati, e a mettere sotto processo accademici ed insegnanti, gli occidentali di Pechino si attardano ad interrogarsi sul passato, a celebrare i loro riti di socialità compulsiva e autoreferenziale, a coltivare amori e deviazioni erotiche e pedofile, a invischiarsi in operazioni di spionaggio. Accanto a coloro che soffrono a vedere i propri amici letterati sotto attacco, e a vedere distrutti monumenti e opere d’arte che ammirano, ci sono anche i giovani carrieristi e gli ingenui che si innamorano della Cina rivoluzionaria, facendosene propagandisti. Ma spira un vento ostile anche nei confronti della comunità straniera: scompaiono e vengono processati gli amici dalla cultura occidentalizzante, ma anche i russi e gli inglesi sono aggrediti e messi sotto assedio.

Nella Pechino del quartiere diplomatico tante vite si intrecciano, con un passato che riemerge nei ricordi evocando la guerra, il fascismo e il nazismo, il colonialismo francese in Algeria ed Indocina. Insomma l’Occidente ha un fardello pesante, che rende difficile farsi assolvere per il sacco del Palazzo d’estate. Un racconto corale che non approda ad alcuna catarsi, e che nel disagio per la violenza scatenata nelle strade di Pechino esprime anche il proprio male di vivere. Tutti vivono sulla soglia, sempre in attesa di partire.

P. J. Remy è lo pseudonimo di J. P. Angremy (1937-2010), che è stato accademico di Francia (dal 1988), diplomatico e scrittore, uno dei tipici intellettuali ed enarchi francesi sul modello di Malraux, cosmopoliti e coltivati, grandi organizzatori culturali. E’ stato di stanza ad Hong Kong e Pechino ma anche a Firenze, ha diretto l’Accademia di Francia a Villa Medici, ha creato l’Opera della Bastiglia e ha presieduto la nuova Biblioteca nazionale (1997-2002). Autore di più di sessanta opere, questa che commentiamo gli meritò il Premio Renaudot, mentre con Orient Express nel 1984 guadagnerà il riconoscimento dell’Accademia.

Opera relativamente giovanile, molto ambiziosa, controcorrente rispetto alla grande popolarità di cui la Rivoluzione culturale godeva in quegli anni in Europa. Rileggerla a distanza di decenni ci fa misurare quanto lo sguardo e la realtà siano mutati. E’ tramontato da tempo quel ristretto mondo di expat che osserva dal quartiere diplomatico una realtà sfuggente ed estranea, cercando di penetrarla con chiavi culturali sofisticate mentre combatte la noia con i ricevimenti e le gite alla Grande Muraglia e alle Colline occidentali. Va ricordato che all’epoca gli stranieri non potevano circolare liberamente in Cina e vivevano in uno stato di relativa reclusione; a pochi chilometri da Pechino già cominciavano i cartelli di interdizione.. Una reclusione non troppo diversa da quella che aveva vissuto Segalen agli inizi del secolo. Per questo restava una guida ed un punto di riferimento.

Per misurare la distanza che ci separa dalla narrazione del 1971 basti pensare che si racconta di come Segalen avesse intravisto nei dintorni di Xian la tomba del Grande Imperatore Qin Shi Huangdi e avesse immaginato che potesse contenere esempi di quella grande statuaria antica cinese che andava cercando. Ma neppure Remy è stato in grado di avvalorare la sua intuizione, perché l’esercito di terracotta non era ancora stato portato alla luce. Solo nel 1974 ci sarebbe stata la straordinaria scoperta archeologica che ha disvelato uno dei più grandi tesori del passato.

(Silvia Calamandrei)

 

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