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L’intervento della nostra Presidente Silvia Calamandrei al Convegno dell’Università per Stranieri di Siena, 24 novembre 2017

Yang Jiang: traducendo una traduttrice cosmopolita

UNISTRASI, Convegno 24 novembre 2017

Questo mio intervento vuole essere un contributo un po’ a ruota libera sul tema del convegno odierno, con molti punti interrogativi da parte di chi si è dedicato periodicamente a traduzioni dal cinese, negli alti e bassi della frequentazione della lingua e della cultura di questa grande civiltà. Una lingua che ho appreso bambina e che ho periodicamente re-imparato, trovandomi talvolta a conservarne solo una memoria scritta, con il significato dei caratteri impresso nella testa ma la perdita della loro sonorità. Come disporre di uno spartito musicale, che va suonato per apprezzarlo. Vuole essere anche un omaggio a Yang Jiang, scomparsa nel 2016, che ho avuto l’onore di conoscere e di tradurre.

Parto dall’assunto che tradurre una traduttrice, ed una grande  traduttrice come Yang Jiang, che si è misurata con Cervantes, e conoscitrice di tante lingue e culture, apprese tra Oxford e la Sorbona negli anni Trenta, è stato paradossalmente meno arduo che tradurre scrittori profondamente cinesi come Mo Yan e Yu Hua.

La spiegazione che me ne dò- è una ipotesi- é che Yang Jiang si colloca, nel suo cosmopolitismo, in quell’angolo morto, o quell’intersezione, quel sottile confine, quel bordo del crogiuolo in cui tutte le lingue si incontrano, in una torre di Babele che miracolosamente  mette in comunicazione un piano con l’altro, con un semplice switch. Ed il suo periodare, pur intriso di cultura classica cinese, sembra filtrato e filtrabile, nell’oscillare del pendolo delle citazioni tra antichi poemi e romanzi della letteratura cinese o occidentale. Lo Zibaldone di suo marito Qian Zhjongshu (Guan Zhui Bian), uno dei più grandi letterati cinesi del Novecento, è del resto proprio un commentario scritto in cinese classico ed un compendio di citazioni dalla letteratura universale, in uno sforzo comparatista che non ha eguali.

Questa straordinaria coppia di intellettuali cosmopoliti, formatasi nella Cina del 4 maggio e degli studi all’estero, mette il suo talento ed il suo sapere al servizio della nuova Cina, e viene per l’appunto impiegata essenzialmente nella traduzione.  Traduzione che, non dimentichiamolo, è stata una grande impresa in Cina a cavallo del secolo XIX e XX per impadronirsi della conoscenza del pensiero occidentale. I due lavorano in quell’istituto di lingue di Pechino, istituzione accademica appoggiata all’Università di Tsinghua e poi di Beida nel quale Yang Jiang ambienterà negli anni Ottanta (1988) il suo romanzo Lavarsi (Xizao, tradotto Baptism in inglese e Le bain in francese), dedicato alla prima campagna di epurazione e rieducazione degli intellettuali, troppo segnati dalla formazione occidentale, dallo spirito idealista e umanista, e dall’individualismo piccolo-borghese. Nello zelo di autoriformarsi, tanti di loro si punzecchiano a vicenda, desiderosi di mostrarsi i più “puliti”. Ma c’è anche chi si rifugia negli studi letterari e linguistici più dotti e nel commento sofisticato dei classici, nonché nelle composizioni poetiche e nella pittura come fa Qian Zhongshu, che alterna i panni curiali all’incarico prestigiosissimo ma oneroso di traduttore delle opere di Mao in inglese. È come se facesse il lavoro all’inverso di Yanfu (1853-1921), il grande traduttore in cinese classico di Smith, Stuart Mill e Montesquieu, o dei traduttori dei classici del marxismo negli anni Venti e Trenta.

Non è questa la sede per parlare dell’importanza della traduzione in cinese delle opere chiave occidentali anche nel senso dell’arricchimento della lingua: un convegno a parte meriterebbe la traduzione della saggistica e delle opere di teoria politica, filosofica ed economica, e questo nelle due direzioni.

Non va mai dimenticato che il Partito comunista cinese ha dedicato grande attenzione alla traduzione, mettendo in piedi un notevole apparato di linguisti cinesi e stranieri. E  merita riflessione il fatto che nonostante la presenza alle edizioni in lingue estere di tanti traduttori delle diverse lingue madri, per rendere Mao si è preferito un letterato che aveva le radici nella lingua e cultura cinese, quasi che il Mao Zedong pensiero meritasse qualcuno che padroneggiava perfettamente il classico, conoscendo al contempo i classici del pensiero universale,

Qian Zhongshu, elaborando la sua teoria della traduzione, si misura proprio con i precetti di Yanfu su fedeltà, fluidità ed eleganza, paragonando la traduzione alla trasmigrazione delle anime: non conta la scorza, ma lo spirito.

Yang Jiang nel frattempo insegnava letteratura inglese e traduceva Lazarillo de Tormes e Gil Blas, studiando lo spagnolo da autodidatta fino ad affrontare il Don Chisciotte.

Pur essendosi tenuti ai margini, dedicandosi agli studi e alle traduzioni, anche i due coniugi non sfuggono alle intemperie della rieducazione attraverso i campi di lavoro, prima nella campagna contro gli “elementi di destra” e poi più drammaticamente, nel corso della Rivoluzione culturale. Ed anche la traduzione può divenire una colpa, come si rivela quando le Guardie rosse sequestrano il manoscritto del Don Chisciotte, classificandolo come “materiale nero”.

Le peripezie di quel periodo drammatico vengono narrate con mano leggera dalla scrittrice, che si scopre una vena di memorialista a cui dedicherà molte energie nell’ultimi decenni della sua lunga vita. Il tono ironico e di understatement ne fa una novella Alice in un mondo “oltre lo specchio”, la cui logica le sfugge.

È in questa veste che l’ho conosciuta ed  ho cominciato a tradurre in italiano alcuni  suoi scritti . Si era agli inizi degli anni Novanta,  ed ero rimasta incantata del suo approccio ironico nel narrare le traversie delle esperienze di rieducazione e  persecuzione vissute assieme al marito, sia  nella Scuola quadri «7 maggio» in cui erano stati spediti[1], che  poi negli anni Bing Wu e DingWei[2] , i più intensi della Rivoluzione culturale.

In Occidente in quegli anni si traduceva tanta letteratura cinese «delle ferite e delle cicatrici», fiorita negli anni Ottanta a rievocare drammaticamente le vicissitudini patite nella Rivoluzione culturale. La leggerezza e lo stile fiabesco di Yang Jiang, novella Alice spaesata in un mondo dell’assurdo, e la densità dei suoi riferimenti ai classici della letteratura cinese e mondiale, era una boccata d’aria fresca e un arcobaleno scintillante lanciato a collegare passato e presente, Oriente ed Occidente[3].

Avendo presentato il suo lavoro sulla rivista italiana «Linea d’ombra»(1992) le scrissi chiedendole l’autorizzazione a tradurre le sue memorie della Rivoluzione culturale ed altri brevi saggi e racconti. Le spiegavo di aver avuto una infanzia pechinese negli anni Cinquanta e di essere poi tornata in Cina negli anni Settanta, entusiasta della Rivoluzione culturale, piena di illusioni, che i suoi scritti contribuivano ulteriormente a sfatare.

Ne nacque una corrispondenza in inglese ed alcune traduzioni delle sue memorie e dei suoi saggi, approdata ad un incontro nel 2011 nella sua casa di Pechino che mi ha riempito di gioia. Una relazione privilegiata, che ha aiutato la comprensione reciproca, creando una intesa, un feeling che indubbiamente aiuta la traduzione.

Come già accennato,  Qian Zhongshu non è stato solo traduttore delle opere e delle poesie di Mao, ma un grande teorico della traduzione, soprattutto della poesia, e le sue riflessioni, espresse in saggi e nella sua opera somma Guan Zhui Bian non hanno potuto prescindere dalla esperienza della sua compagna di vita. Entrambi sono contro la traduzione letterale e sottolineano l’empatia col testo: per Qian Zhongshu la “fedeltà” equivale ad afferrare il significato e trasmetterlo dimenticando le parole. Il suo ideale nel tradurre è la sublimazione, convertire il testo nell’altra lingua senza perdere il sapore dell’originale, ma esprimendosi con tale naturalezza da non far avvertire mai che si tratta di una traduzione. La sublimazione è come la trasmigrazione delle anime, che sostituisce la scorza esterna ma mantiene integri lo spirito e lo stile[4].

Nell’accogliermi con espressioni di cortesia in francese per poi passare indifferentemente all’inglese o al cinese, senza mancare di citare un verso di Dante in italiano, Yang Jiang mi ha mostrato la sua versatilità linguistica e l’apertura curiosa verso il mondo e le altre culture che le ha meritato il più alto riconoscimento della corona spagnola per la sua traduzione di Cervantes.

Il suo stile narrativo e saggistico ha una trasparenza ed una leggerezza che ne rendono meno impervia la trasposizione. Ci ho pensato leggendo qualche giorno fa le affermazioni di Jack London, del 1910, sulla lontananza tra i processi mentali anglosassoni e quelli cinesi. In the Unparalleled Invasion[5], scritto sotto lo choc della vittoria giapponese sui russi  nel 1905 e l’emergere dell’Asia sulla scena mondiale, London alimentava l’incubo del pericolo giallo sostenendo che tra la mentalità occidentale e quella cinese non c’è discorso psicologico comune e che i processi mentali sono radicalmente differenti, non comunicanti.

Come accennato a proposito di Yan Fu,  lo sforzo di comunicazione e traduzione, avviato dai Gesuiti sul fronte occidentale, ha avuto una lunga storia in Cina a partire dalla fine del XIX secolo, innescando anche una fondamentale evoluzione linguistica e stilistica. E tuttavia ancora oggi, se leggiamo delle traduzioni troppo letterali di testi cinesi avvertiamo un senso di estraneazione. Alcuni scrittori non sembrano presentare questo problema: è il caso di Lu Xun, è il caso di Yang Jiang e di Qian Zhongshu, scrittori cosmopoliti che costituiscono una sorta di ponte comunicativo.

Ciò non significa che anche con i loro testi non bisogna negoziare e dosare tra la trasposizione e la nota che aiuta il lettore a cogliere la citazione ed il contesto.

Il filosofo francese Balibar sostiene che “le lingue si parlano”, nel senso che vengono parlate ma anche parlano reciprocamente, tra loro[6], e scrive:

Da una parte […]le lingue sono fondamentalmente intraducibili nel senso di una equivalenza perfetta tra i loro significati (o contengono sempre degli elementi fondamentali di intraducibilità, che si rivelano alla prova della traduzione come limiti o punti di blocco). D’altra parte, è questa intraducibilità che impegna le lingue in un compito infinito di traduzione «impossibile», che è anche dialetticamente un processo di verifica della loro «idiomaticità», e un processo di sviluppo o di trasformazione delle une attraverso le altre. Ma si potrebbe dire anche: nella pratica della traduzione i soggetti fanno contemporaneamente, e contraddittoriamente, l’esperienza delle costrizioni di significato e di sintassi che non possono trasgredire «a volontà» (e che valgono al tempo stesso per le lingue traducenti e per le lingue tradotte), e l’esperienza delle libertà che si possono e debbono prendere, ispirandosi ad un idioma particolare, per trasferirlo in un altro e, se del caso (come spiegava Benjamin nel Compito del traduttore del 1921), per trasformare «poeticamente» una lingua data in modo che possa ricevere i significati di un’altra. Tuttavia, quale che sia la libertà dei soggetti (nel senso dello spazio di «gioco» di cui dispongono o che si concedono), essi in questo contesto sono soltanto gli strumenti e gli interpreti del rapporto storico tra le lingue, ed è al livello delle lingue che si situa la relazione tra le costrizioni e le libertà, la condizione di possibilità della traduzione infinita dell’intraducibile. Per questo io sostengo che, nella traduzione, non sono i soggetti che si parlano, o che «parlano in lingue» come dice il Vangelo (Atti, II, 6), ma più fondamentalmente sono le lingue che «si parlano». E più apparirà che la traduzione, in tutte le sue forme, non è un epifenomeno della molteplicità delle lingue, ma al contrario una condizione della loro interdipendenza e della loro evoluzione, più questa inversione di prospettiva rispetto alla formulazione corrente (che si potrebbe definire «anticopernicana», in quanto di nuovo rimuove il soggetto dalla sua posizione centrale senza renderlo per questo inutile o evanescente) apparirà inevitabile.

Tornando a Yang Jiang e Qian Zhongshu possiamo considerarli non solo dei traduttori e chiosatori e linguisti, ma degli innovatori della lingua: intellettuali ponte tra due dimensioni culturali, capaci di padroneggiarle e fonderle con maestria. Un unicum novecentesco, prodotto dalla cultura del “4 maggio” (il risveglio della intellettualità cinese negli anni Venti), probabilmente non riproducibile, ma fecondo di insegnamenti.

Da notare quanto ricorra nelle opere di Qian Zhongshu e Yang Jiang il concetto di “al margine della vita” (Rensheng Biansheng): è nel titolo di un’opera di Qian del 1941 (Scrivere al margine della vita) e poi in una delle sue ultime pubblicata postuma nel 2001 (Al margine del margine della vita) e si ritrova nel titolo di una delle ultime opere della ultracentenaria Yang Jiang (Arrivata al margine della vita). Due intellettuali “al margine”, che non è la torre d’avorio, ma il distanziamento acquisito grazie ad una ricchezza ed a un cosmopolitismo culturale che consente di osservare con distacco ironico anche le tragedie che si attraversano. Ma il margine, il bordo, è anche il punto di vista che consente di affacciarsi su culture e lingue differenti, ed è il punto di osservazione del loro cosmopolitismo, ben descritto nella raccolta di saggi curata da Christopher Rea China’s Literary Cosmopolitans: Qian Zhongshu, Yang Jiang and the World of Letters.

Nella raccolta c’è un saggio di Carlos Rojas sulla traduzione del Don Chisciotte che sottolinea il valore creativo ed empatico dei fraintendimenti o addirittura errori di traduzione, nell’arbitraggio culturale che la scrittrice esercita nella intermediazione linguistica. Viceversa si analizza l’impatto dei romanzi del Settecento inglese da lei tanto studiati per commentare la finezza delle forme narrative che sa usare per descrivere le interazioni psicologiche tra i personaggi dei suoi romanzi, nella tradizione della commedia di costume.

La traduzione per Yang Jiang è anche terapia ed elaborazione del lutto, quando traduce il Fedone di Platone dopo la morte della figlia e del marito; il pensiero classico greco si sposa con i tanto amati classici cinesi nella riflessione sulla vita e sulla morte, sull’anima e sull’immortalità dello spirito.

Come già dicevo, accostarmi ai suoi testi e conoscerla di persona è stato un privilegio, ed ho voluto renderle omaggio non solo ricordandola nella raccolta di saggi in suo onore pubblicata in Cina, ma traducendone un breve racconto su un gattino molto “umano”[7], di cui la scrittrice si sforza di interpretare pensieri e sentimenti: un metalinguaggio, tra persone ed animali, che comunica di più del linguaggio stereotipato degli slogan e delle formule politiche invalso all’epoca del racconto.

Da qui traggo qualche spunto per illustrare problemi di traduzione, rendendomi conto di aver volato alto per evitare un confronto con la fatica e la difficoltà del tradurre. Partiamo del titolo, imposto dall’editore: e questo succede tante volte nelle traduzioni italiane, allontanandosi troppo ricercando l’efficacia del richiamo. Il titolo cinese Huahua’r è il nome del gatto, un po’ onomatopeico ma che sta anche ad indicare i gatti macchiati, infatti lo abbiamo chiamato Macchia, ma un titolo del genere sarebbe stato ambiguo. Io avrei preferito Gatto tout court, ma l’editore ha voluto definirlo con l’aggettivo dimostrativo. Altro problema, la contestualizzazione, la necessità di far capire al lettore italiano espressioni che ritmano la storia contemporanea cinese come il Movimento tre anti. In cinese Sanfan, tre contro, come poi ci sarebbe stato il Movimento Wufan, Cinque contro o Cinque anti: si tratta di formule abbreviate che hanno afflitto e mobilitato milioni di persone, evidenti per i cinesi contemporanei ma oscure per il lettore occidentale. Gli editori non amano appesantire con troppe note, a volte si preferisce un glossario finale, oppure esplicitare le formule  nominando per esteso gli obiettivi di una campagna di denuncia; anche per tante espressioni ereditate dalle campagne politiche e dalla Rivoluzione culturale, tipo “gli elementi di destra” i “giovani istruiti mandati in campagna”, le “quattro pulizie”, “i demoni buoi e gli spiriti serpente” da spazzar via, si conta che il lettore riesca a pescare nella propria memoria, dato che il gergo maoista ha avuto per alcuni decenni una certa diffusione in Occidente. Bisogna dire che l’inglese è la lingua che si presta meglio a rendere certe combinazioni, o forse dovremmo ringraziare Qian Zhongshu delle felici soluzioni trovate nelle sue traduzioni delle opere di Mao.

Più difficile evitare di esplicitare con una nota i riferimenti ai classici del pensiero e della letteratura cinese: come non indicare almeno in una nota finale i  riferimenti impliciti nei versi che Qian Zhongshu ha dedicato al gattino, menzionando un antico trattato sull’amicizia di Liu Xiaobiao ? Un lettore cinese viceversa non potrebbe fare a meno di una nota se ci fosse un riferimento alle Lettere a Lucilio di Seneca o al De amicitia di Cicerone. La soddisfazione nel tradurre Yang Jiang è che i riferimenti ai classici cinesi ed occidentali si alternano, e sono spesso talmente sottili da richiedere note sia per il lettore cinese che per l’occidentale.

Perdonatemi questo excursus che si avvantaggia della presentazione di due outsider evitando di entrare nel merito più tecnico ed esemplificativo del lavoro di traduzione: ben più impegnativo da raccontare sarebbe  il corpo a corpo con Jiuguo di Mo Yan (Einaudi 2016) o con le Vite di donne di Su Tong (Einaudi 2008), facendo i conti con una fantasia sfrenata e torbida e con una ambizione epica e moralistica oppure con ritratti psicologici di figure femminili di diverse generazioni e classi sociali. Il lavoro di resa conosce tante versioni, da una più letterale e calcata sul testo al distanziamento progressivo per sfrondamento attraverso le riletture, a favore della leggibilità. E la soddisfazione nelle recensioni si ricava quando si elogia  la scorrevolezza della lettura e la chiarezza. Altre strategie sono possibili, indubbiamente, ma ogni traduttore ha la sua. E tanto aiutano le riletture di chi il cinese non lo conosce proprio, ma possiede solidamente l’italiano.

(Silvia Calamandrei)

Siena University for Foreign Students, Conference on translation of Chinese literature and the role of translators, 24 November 2017

In her intervention Silvia Calamandrei suggested that “translating a cosmopolitan translator as Yang Jiang” was easier than translating Mo Yan or Yu Hua.

Why? Because the culture and the background of intellectuals like Yang Jiang and her husband Qian Zhongshu, who belong to the May 4th  generation and studied abroad,  gives a special quality to their language, rich of references to Western and Eastern classics.

The couple was also engaged in a lot of translations, and this experience surely influenced the way they express themselves, as well as their theory of translation as a transmigration of soul.

Their place is on the border, at the margin between different languages, a sort of dead corner, a melting pot, where all the languages communicate with each other (the French philosopher Balibar writes that languages speak to each other),  a Babel tower where you may switch from a level to another  without trouble.

Silvia Calamandrei referred to the importance of translation in China at the end of the XIX century (Yan Fu): the translation of Western classical works as Smith or Stuart Mill contributed to opening not only the spirits but the language. The same happened with translation of Western literature in the 20’s and 30’s and with the effort of expressing in Chinese the works of Marx, Engels and Lenin.

Qian Zhongshu inherited this mission, performing the task also the other way round: he was chosen as the translator in English of Mao’s works, a privilege and a risk. At the same time he was writing in classical Chinese a comparative compendium of Chinese and Western literature and philosophy, an unicum.  Even if there were plenty of mother tongue translators at the Foreign Language Editions, the Chinese authorities considered him the only one to be trusted to ensure  dignity to Mao Zedong thought in a Western language.

In the meantime Yang Jiang was teaching English literature, translating Gil Blas and Lazarillo da Tormes and learning Spanish to translate Don Quijote.

Even if they kept “at the margin”, the two couldn’t escape the campaigns and the movements targetting the rightists and the intellectuals. Even translation could become a sin to be atoned, as happened when the Don Quijote translation was considered black material by the Red Guards.

In her memories about the 7th May School and the years Bing Wu and Ding Wei  Yang Jiang treats those tragic events with understatement and lightness: like Alice on the other side of the mirror she uses irony to depict a world where any logic is missing.

I met her works and started translating her in the 90’s when a lot of literature on wounds and  scars of the Cultural revolution was translated in the West. I wrote to her and we started a correspondence that I describe in the tribute to her published in China after her death (Madame Yang Jiang a forever memoir, Beijing 2016). I had the privilege to meet her in 2011, when she was celebrating her centenary birthday.

These exchanges and the friendship that developed among us created a special feeling that made it easier to understand each other: thanks to this and her special style, rich of references to Western as well as Chinese culture, my work as a translator was less difficult. The same happens also with writers as Lu Xun and Qian Zhongshu, who may be considered bridges or rainbows linking West and East.

Staying “on the margin”our cosmopolitan couple ( well described in Christopher Rea China’s Literary Cosmopolitans: Qian Zhongshu, Yang Jiang and the World of Letters) could keep a special point of observation, a panoramic vision. They were not confined in  an ivory tower, they were keeping their distance and able to look with irony and detachment to the tragedies they were living through.

In Christopher Rea’s collection, Carlos Rojas comments on Yang Jiang translation of Don Quijote underlining that even mistakes or apparent misunderstandings are significant of the role the translator plays as arbiter between languages. For her translation was also a therapy, a way of elaborating the mourning of her husband and her daughter, as with the translation of  Plato’s Phaidon: Greek philosophy combines with references to Chinese Taoist classics in her reflection on life and death and  immortality of the soul.

In Huahua’r, the story of a cat that I translated recently (Henry Beyle 2017), Yang Jiang interpreters the mute language of her kitten, more human than many people at the time: a lesson of humanism that keeps an universal value.


[1] Ganxiao  liuji, (1981).Pechino. Tradotto in inglese e in francese:  Six Chapters form My Life Downunder (1983), University of Washington Press, Six récits de l’école des cadres, (1983),  Christian Bourgois, Parigi,

[2] Gli anni 1966 e 1967, i più intensi della Rivoluzione culturale secondo la  denominazione in base al calendario lunare cinese. Bingwu yu Dingwei Jishu (1986); traduzione italiana di Silvia Calamandrei (1994) in Il té dell’oblio , Einaudi, Torino.

[3] Va notato che l’elaborazione di Yang Jiang e di Qian Zhongshu sulla Rivoluzione culturale continua ad essere oggetto di discussione in Cina e all’estero, tra gli intellettuali cinesi:  è del giugno 2016, dopo la morte di Yang Jiang, una discussione tra professori cinesi al riguardo, con critiche e difese, interrogandosi se avessero fatto abbastanza per resistere in quegli anni. Qian Zhongshu, in una sua prefazione alle cronache della moglie, aveva invocato la necessità di un capitolo sul sentimento di vergogna che avrebbero dovuto provare tutti coloro che avevano assistito o accompagnato in posizione secondaria le campagne di critica e lotta.

[4] Traggo questi spunti dal saggio di Zheng Xiaodan A Study on Qian Zhongshu’s Translation:

Sublimation in Translation  in “Studies in Literature and Language”  Vol.1 No.2 2010.

[5] Tradotto in italiano da O’barra’O.

[6] In un saggio della raccolta gli Universali, di prossima pubblicazione da Bollati Boringhieri.

[7]Questo gatto [ Huahua’r], Edizioni Henry Beyle, Milano 2017.

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