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Conflitti storici più che generazionali: “La rancura” di Romano Luperini

Romano Luperini

 

La rancura

 

MilanoMondadori, 2016

 

L’autore definisce la prima e seconda parte del suo romanzo docu-fiction e auto-fiction, ricostruendo prima la vicenda del padre partigiano (Memoriale sul padre), e poi la propria biografia  di intellettuale e militante dal 1968 al “riflusso”, attraversando e sfiorando la vicenda del terrorismo (Il figlio). La parte terza, in terza persona, è intitolata Il figlio del figlio, ed è come un racconto post-mortem  affidato alla nuova generazione:  insomma inscena la elaborazione del lutto e della memoria  di se stesso da parte dei propri figli.

Nelle  prime due parti,  Luperini fa i conti col padre e con se stesso, con grande onestà e rigore, ed una narrazione densa e sobria che si colloca nella grande tradizione toscana, da Tozzi a Bilenchi a Cassola.  Nella parte conclusiva cerca di vedersi con lo sguardo della nuova generazione, in uno scambio epistolare tra il figlio ed un’amica e nella conversazioni su di lui del figlio e della figlia. Questa conclusione risulta più artificiosa e segna uno stacco, come se nonno e padre fossero tutto sommato impastati della stessa materia e storia, mentre i  figli sono degli alieni che non riescono a nutrire empatia per le generazioni precedenti.

Questa differenza la sottolinea il figlio del figlio, per spiegare l’impossibilità di raccontare il padre:

Loro erano diversi da noi, troppo diversi. Loro sognavano il cambiamento, oppure ne avevano paura, e se non lo temevano e non lo desideravano comunque se lo aspettavano, e invece noi non lo conosciamo, non ne abbiano idea, sappiano da sempre che non esiste, che non è plausibile […], Loro credevano nei fatti e nelle emozioni, erano seri e patetici, noi siamo ironici e cinici. Loro sono stato fascisti o antifascisti, partigiani, comunisti, sessantottini, avevano un’idea del passato e una del futuro. Di qui errori terribili e tragedie continue. Noi si vive senza tragedie e senza grandi conflitti, in una confusione generale, dove tutti sono contro tutti ed esistono solo obiettivi temporanei e personali“.

In verità, vista l’impossibilità del figlio di entrare in sintonia col padre per troppa differenza, è il padre che sta raccontando i figli, pretendendo di conoscerli: e qui c’è un eccesso di ambizione e troppa finzione, ma non nel senso di fiction. E’ l’io narrante che non ama la nuova generazione, che vivrebbe nell’apparenza e nell’effimero, e che non sa comprendere i suoi amori senili ed il suo deperimento fisico. Per questo organizza anche il proprio funerale: la scena più bella di questa terza parte., quando fa irruzione nella cerimonia molto accademica un gruppo improbabile in felpa o giubbotto di cavatori di marmo di Carrara, comunisti, anarchici, con il quale il defunto aveva condiviso l’uscita dal PCI fondando nel 1968 un gruppo Che Guevara.

Hanno portato una bandiera rossa su sua espressa richiesta, un omaggio ad un comunismo che non sa più bene cosa sia, ma che resta un riferimento:

“Finché ci sarà un albanese sul gommone e qualcuno che vuole affondarlo, ci sarà qualcun altro che si dirà comunista. […]Voi direte che è troppo poco, lo so. Ma credo che il comunismo vada ricondotto alla sua etimologia, alla parola comunità e ai legami e ai doveri che essa comporta”.

Nella bandiera rossa che chiede ai vecchi compagni di portare vede “un dispetto, un gesto di sgarbo contro la società presente, una non-rassegnazione, e anche un ultimo segnale lanciato a qualcuno, un bisogno di solidarietà e di senso, di una qualche continuità tra passato e futuro, fra i diversi brandelli della mia vita e della vita di ogni altro”.Paradossalmente, quella rancura che secondo Montale ogni figliolo nutre per il padre, che dà il titolo al romanzo, sembra continuare ad animarlo verso il presente e verso i figli, mentre è riconciliata verso il passato.

(Silvia Calamandrei) 

 

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