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Città dei vivi o dei morti viventi?: “La città dei vivi” di Nicola Lagioia

Nicola Lagioia

La città dei vivi

Torino, Einaudi,  2020

 

Arrivata in fondo al tunnel di una lettura appassionante ho trovato la dedica di Lagioia a due amici prematuramente scomparsi, Alessandro Leogrande e Fabio Menga, entrambi con le stesse radici pugliesi dell’autore, il primo grande giornalista d’inchiesta sul terreno con i suoi reportage sull’Ilva, il secondo educatore e animatore culturale e civile in Toscana, nel nostro territorio, infaticabile nello stimolare i ragazzi all’osservazione della realtà complessa che ci circonda. La dedica rispecchia l’eredità che Lagioia ha voluto raccogliere nel cercare di decifrare il tremendo delitto del Collatino: due giovani che ne uccidono un terzo in una Roma sprofondata nel cinismo e nello sfascio del tessuto civile.

Non la Roma di Suburra della criminalità, né quella del Mondo di mezzo della corruzione, ma la Roma dei gabbiani e dei topi tra la mondezza, dei giovanissimi marchettari della Stazione Termini, dei mestieri precari e dei festini con profusione di cocaina, degli intrattenitori e organizzatori di eventi, degli spacciatori, dei sodalizi di quartiere come quello di Battistini, del traffico impazzito sotto la pioggia con i tombini che traboccano, degli autobus che si incendiano e degli autisti aggrediti e le biciclette vandalizzate.

Una Roma di cui Lagioia prova comunque nostalgia, una volta trasferito per lavoro a Torino. L’efficienza della capitale sabauda, il fatto che si riescano a fare i certificati in tempo reale e si arrivi puntuali agli appuntamenti gli dà sollievo, ma non cancella il velo di tristezza da cui si sente avvolgere: “Roma ci mancava da morire. Forse ci eravamo legati alla città come il tossico alla sua droga”.

Roma è lo scenario della violenza omicida che si scatena in due giovani cocainomani, ma è il sodalizio tra loro, il legame possessivo ed esaltante che stringono, a farne i protagonisti della ricerca di una vittima sacrificale. Si sono fatti tanti riferimenti ad altre narrazioni letterarie di delitti gratuiti, da Truman Capote a Carrère a Gide, ma forse quello più pertinente è Compulsion di Meyer Levin, il reportage sul delitto di due giovanissimi dell’alta borghesia nella Chicago degli anni venti, che ispirò anche Nodo alla gola di Hitchcock. Anche Levin, come Lagioia, ricostruisce l’ambiente, i protagonisti, i famigliari, sente gli avvocati, gli psicologhi, segue con partecipazione il processo, ed è profondamente coinvolto nella sua inchiesta.

Ma qual è stato l’impulso di Lagioia a sprofondare nella ricostruzione minuziosa dell’assassinio di Luca Varani, il giovane proletario, figlio adottivo di una famiglia di ambulanti, che lavorava da un carrozziere ed aveva una fidanzata amatissima, ma perdeva soldi alle slot machines e ogni tanti se li rifaceva con delle marchette? Non è solo la proposta che gli viene fatta dal Venerdì di Repubblica, o l’indagine sociologica tra i quartieri romani di appartenenza, La Storta proletaria, il Collatino piccolo borghese e Prati alto borghese, che lo appassiona. È piuttosto il sentirsi interpellato su come si possa sprofondare in un buco nero di violenza, interrogandosi anche autobiograficamente su come facilmente si possa sbandare e perdere il controllo per abuso di alcool o di droghe.

Manuel Foffo e Marco Prato ci interpellano perché sono due giovani qualunque, il cui sprofondare in una deriva criminale avviene quasi inconsapevolmente, mentre la vittima sacrificale cade in trappola quasi per caso, a differenza di altri che si sono salvati semplicemente per non aver risposto al messaggio di invito su whatsapp, o per aver fiutato il pericolo. L’autore ricorda la sua infanzia difficile e le proprie sbandate giovanili e si rende conto di essersi salvato, di “essere stato fortunato” per uno strappo violento che lo ha costretto a cambiar vita:

Sapevo cosa significava mettere messo passo nel cono d’ombra, sapevo che bisognava tirarsi indietro il prima possibile. Ma poi? Cosa succedeva a chi non si fermava, o non riusciva a farlo? Ecco, questo non lo sapevo per niente; Cosa ne era di chi, immerso nell’ombra, continuava a scendere i gradini? Oltre una certa soglia si apriva un mondo sconosciuto.

Su questo Lagioia indaga con onestà intellettuale, senza mai cedere allo splatter, con una pietas nei confronti di tutti i personaggi.

La città dei vivi rischia di essere risucchiata dalla città sotterranea stratificata nei secoli, che ha sempre mescolato come nel Mondo di mezzo l’alto e il basso, le classi sociali imbricate tra di loro:

Roma era morta e risorta tante volte, ed io non ero così arrogante da credere che l’attuale tracollo fosse quello definitivo. Rischiava però di esserlo, definitivo, se lo commisuravo alla mia aspettativa di vita e a quella delle persone che amavo. La città di sotto si stava mangiando quella di sopra, i morti divoravano i vivi, l’informe guadagnava terreno.

Lagioia va alla ricerca del ripristino del sentimento della responsabilità individuale, in una società che sembra scaricarla continuamente, perduta nel cinismo e nell’indifferenza. Difficile concepire la speranza in una città che rischiava di trasformarsi nella città dei morti viventi. Ce n’è un po’ in qualche colloquio, nelle parole di qualche intervistato, nell’incontro col senatore Manconi che si occupa delle condizioni delle carceri e della giustizia riparativa. E nell’amore comunque per Roma, il cui saldo è alla fine positivo:

La città ti regalava molto più di quello che chiedeva in cambio

(Silvia Calamandrei)

 

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