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Un’opera sull’identità nazionale italiana: “Italiani senza padri” di Emilio Gentile

Emilio Gentile

Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento

 a cura di Simonetta Fiori

Roma-Bari,  Laterza,  2011

 

Lo storico Emilio Gentile studia la questione “nazionale” italiana fin da tempi non sospetti,  quando nessuno ancora si preoccupava che il sentimento nazionale si andasse estinguendo: studioso del fascismo e del “mito della nazione” , le sue argomentazioni non sono improvvisate in occasione del 150mo anniversario, e meritano attenzione.

Soprattutto quella che l'”oblio della nazione” non vada imputato al secessionismo della Lega, che ne è un risultato piuttosto che una causa. Secondo Gentile il mito della nazione può “sopravvivere soltanto in uno Stato che davvero funzioni, dove operino con regolarità i tribunali e gli ospedali, i servizi pubblici e le scuole, e persino le carceri. […]il sentimento di una patria comune può esistere soltanto là dove i cittadini si sentono  liberi ed eguali davanti alla legge”.

Gentile non condivide la tesi della “morte della patria” nel 1943, ché anzi la resistenza si riappropriò del sentimento nazionale. Sostiene che la discontinuità con il sentimento nazionale risorgimentale fu segnata dalla crisi dello stato liberale nella Grande Guerra e dalla nascita del fascismo, e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, dal sentimento di appartenenza indotto dai grandi partiti di massa, la DC e il PCI, entrambi estranei alla tradizione risorgimentale (nonostante il recupero tardivo di tale tradizione da parte di Togliatti nella Resistenza, più strumentale che realmente elaborato).

Secondo Gentile, il Risorgimento creò “le precondizioni per una convivenza civile e democratica”, ed è il momento fondante dell’unità nazionale. Concorda con Salvemini che sarebbe troppo facile imputare ogni sorta di errori e misfatti agli uomini che governarono l’Italia dopo l’unificazione, senza rendersi conto dell'”opera ciclopica” che si trovarono di fronte: “In sostanza, il nuovo regime unitario era una monarchia burocratica e censitaria ma – che piacesse o meno – era l’unico ordinamento politico e amministrativo che poteva garantire la coesione nazionale”.

Furono gli stessi uomini del Risorgimento ad avvertire i limiti dell’impresa compiuta, e Gentile nega che ci sia stata una “monumentalizzazione retorica”, a cui l’antiretorica odierna starebbe reagendo: “Niente di nuovo sotto il sole” negli epigoni, perché “è da oltre un secolo che il Risorgimento è sotto processo”. Quello che si è abbassata è se mai la qualità delle argomentazioni. In verità, soprattutto nel secondo dopoguerra, ha prevalso “la tendenza a rappresentare la storia del Risorgimento e dell’Italia unita come una storia sbagliata“, e questo sia da parte della storiografia marxista che da parte della storiografia di matrice cattolica.

Per Gentile è la crisi dello Stato che favorisce la diffusione di un sentimento di sfiducia nella nazione. Con la crisi di Tangentopoli e l’implosione dei due grandi partiti di massa, che avevano creato patriottismo di partito ma scarso patriottismo nazionale, si afferma la Lega,  una forza che invoca la disunità e processa Il Risorgimento, ed un partito dell'”antipolitica” come quello di Berlusconi. Ma questo sarebbe la “spia di una carenza che s’è venuta accentuando negli anni, ossia l’oblio del senso di unità nazionale”. Anche la laicità risorgimentale si è dispersa in “una classe politica che tende a riconoscere esclusivamente nella Chiesa cattolica un superiore magistero morale,  ma spesso senza praticare l’etica cristiana”.

Gentile è abbastanza pessimista, e non ha caso ha intitolato il suo libro più recente Né Stato né Nazione. Italiani senza meta.

Silvia Calamandrei

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