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Un’esperienza di viaggio in Oriente: Montefollonico-Pechino nel racconto di Fabrizio Grillenzoni

Riceviamo e con “gusto” pubblichiamo il Diario del nostro collaboratore (purtroppo solo occasionale) Fabrizio Grillenzoni, che gentilmente ci ha voluto far partecipi del suo “epico” viaggio in Transiberiana e poi Transmongolica  fino a Pechino (Luglio 2015). Ci è parso opportuno collocarlo nella sezione “Monti ed Acque” non solo per divertimento dei nostri lettori (ci auguriamo!) ma soprattutto per gli utili di spunti di rilfessione che ci da’ sulle terre di cui ci occupiamo (Cina e dintorni)… Buona lettura!

 

Montefollonico

Montefollonico sta su una collina di fronte a Montepulciano. Ci si va scendendo il pendio delle balze, arrivando a fondovalle e poi risalendo. Paesino di poche anime, come tanti toscani, con una vista delle migliori, di fronte Montepulciano, a destra Pienza, a sinistra, in lontananza, Sinalunga.

Fine anni Sessanta, una decina di universitari riottosi stanno in una casa Calamandrei ancora tutta da riassestare, in brigata alimentare e soprattutto etilica. Si guarda verso la valle e si decide di andare. Si scende per le balze seguendo i sentieri e per altri sentieri si sale verso Montefollonico. Si arriva, si gira, chissà cos’altro, un bicchiere forse. Tocca tornare e fa caldo, le ragazze miracolosamente scovano una vecchia SITA in rotta, sarà una delle ultime, per Montepulciano su asfalto. Salgono tutti. Meno tre. Loro tornano a piedi. E non solo. Non per i sentieri, ma dritto per dritto, dalla discesa fuori della porta fino alle balze, non piegando mai, una scommessa. Uno, chissà quale, porta ai piedi improbabili galosce. Si va e in mezz’ora si è in cima alle balze. Gli altri arrivano dopo. Una foto mostra gli stessi tre, mezzo secolo dopo, alla stazione di Mosca, valigie al piede e calzature più appropriate, in partenza per Pechino, 7400 chilometri più in là, 142 ore di treno, cinque fusi orari. Si va.

 

La morte delle ideologie

Mosca prima tappa, ancora senza rotaie. Un pomeriggio e un giorno intero. Il pomeriggio sera per le stazioni della metropolitana, rutilanti di sovietismo, e all’Arbat iperglobalizzata, felici di scovare l’unico locale che serve meravigliosi pelmeni, ravioli con ripieni vari da affogare in panna acida. La cucina russa se la trovi è ottima, ricordiamoci Le anime morte. Mattinata dove se non alla Piazza Rossa?  Direzione Mausoleo, irrinunciabile per uno dei tre. Insomma, irrinunciabile. Perché la fila è chilometrica, e il sole picchia. Era nel programma, uno dei punti fermi. Ci guardiamo negli occhi. Due guardano soprattutto il terzo, quello dell’irrinunciabile. Incertezza e poi cedimento. Magari sarà per un’altra volta? Tra un altro mezzo secolo? Però l’altro tumulo, quello un po’ meno prestigioso, lungo le mura del Cremlino, magari da lontano bisogna vederlo. Si risale la coda e si arriva di fronte alla fila di tombe. Siamo distanti, difficile dire. Non resta che sceglierne una, convincersi che è quella giusta, dire che l’abbiamo vista. Non ci facciamo fotografare con il sosia di Iosip stile centurione al Colosseo e andiamo verso San Basilio.

La poesia delle vecchie file e degli scaffali vuoti

Il Gum tirato a lucido fa pensare alle giostre finte d’epoca, con la piovra, l’aereo del Barone rosso e l’unicorno. Un’orgia di selfie. In stile anche i carrettini dei gelati presi d’assalto da turisti ignari che la vera tradizione è mangiare il gelato d’inverno, a meno venti. Le griffe ci sono tutte. Ci si ricorda dell’edificio polveroso, delle vetrine vuote, dell’offerta di improbabili aspirine in bottigliette di imitazione americana e di balalaike montate alla bell’e meglio. Un filo di malinconia, il meglio e il peggio si confondono. Comunque per protesta contro il consumismo pacchiano ci rifiutiamo nobilmente di prendere un caffè Illy e di andare a pisciare nei bagni d’epoca a pagamento.

La piscina più grande del mondo

Metro, destinazione fabbrica di cioccolato Ottobre Rosso (da un nome simile uno si aspetta piuttosto il cantiere navale da cui è uscita l’Aurora), esperimento di archeologia industriale, con librerie, gallerie, locali. Stazione Kropotkinskaia, non tra le più belle, ma i grandi russi non si dimenticano (come se a Milano ci fosse Piazza Errico Malatesta). Usciamo in superficie e ci si para la Chiesa del Santo Redentore, che sbarra il ponte dei Patriarchi sulla Moscova, passerella per la fabbrica. Chissà se era così brutta anche quella fatta costruire dalla zar dopo la sconfitta di Napoleone. Certo questa sembra una torta di nozze di nuovi ricchi. Ancora, dove sta il meglio e il peggio? Quintali di tritolo hanno fatto saltare in aria la vecchia, l’area era destinata al palazzo dei Soviet,  poi i rubli sono mancati e Kruscev ha pensato bene di utilizzare il buco per far costruire la piscina più grande del mondo. Uno dice che l’ha vista, in un’altra vita.  A un altro sembra di ricordare di aver visto il cantiere della ricostruzione, in un’altra vita più recente. L’hanno consacrata nel 2000, in tutta la sua bruttezza, vendetta per vendetta. La schiviamo, attraversiamo il ponte e andiamo a bere una birra in un bel locale di Ottobre Rosso. Questo è sicuramente meglio.    

Putch

Putch in russo vuol dire binario. Bisogna impararlo subito e tenerlo a mente, se possibile stampandosi in testa l’immagine della parola in cirillico. È la prima cosa che domandiamo all’ometto esangue che ci consegna i biglietti per il tratto russo. Perché su questi bellissimi biglietti, con tanto di olografia anticontraffazione, c’è il numero del treno, la destinazione (da decifrare, santo liceo classico, e poi dice che il greco non serve), l’orario di partenza (su questo torneremo), e i numeri dei posti riservati. Ma non c’è il binario di partenza, com’è ovvio. E come in tutte le stazioni del mondo, sui quadri luminosi il binario è l’informazione che compare per ultima. Va da sé che in un periplo del genere tutto si può fare meno che perdere un treno. Allora alla stazione con anticipo irragionevole, occhi al tabellone, il treno si individua facilmente, poi fissare la linea putch e aspettare. Il putch si illumina e allora ti avventuri, chiedere direzioni è inutile, ricevi lunghi discorsi sorridenti, sotto gentili occhi azzurri, ma il messaggio non passa. Ma abbiamo tempo, alla fine il numero del tuo putch compare ai piedi di una scala, sei rassicurato, trascini i trolley, sventoli il biglietto sotto gli occhi della responsabile del vagone che poi imparerai a conoscere, siamo in treno.

L’ora di Mosca

Già, prima di tutto non perdere il treno, nessun treno. E ovviamente per non perdere il treno bisogna sapere l’ora della partenza. Più evidente di così. E invece è più complicato. Perché la Russia ha sei fusi orari, ad esempio quando a Mosca sono le 10 a Novosibirsk sono le 13 e a Irkusk le 15. E che c’entra con i treni? C’entra e come, perché lo sciovinismo grande russo vuole che in tutta la Russia i treni viaggino all’ora di Mosca. Arrivi alla stazione di Novosibirsk alle 12 e trenta e vedi che il tuo treno parte (oddio è partito) alle 11. E invece no, parte alle 14 di Novosibirsk. Anche questo lo prendiamo. La soluzione arriva presto: siamo tre, basta che uno resti sull’ora di Roma, per i whatsApp, un altro tenga l’ora di Mosca per i treni e il terzo metta via via l’ora locale, per sapere a che ora chiudono le banche. Basta mantenere la calma, anche se il cammino è più tortuoso di quello da Montefollonico.

La dispensa e l’attacco della mafia

In partenza da Roma i trolley da stiva nascondono, equamente suddivisa, la dispensa. Coltelli forchette e cucchiai, gallette, salame, parmigiano, salciccia secca, 12 scatolette di tonno all’olio d’oliva. Perché l’informazione è che i vagoni ristoranti non sempre sono affidabili. Alla prima sosta, aspettando l’imbarco su mezzi sprovvisti di metal detector, il tutto viene trasferito in un apposito trolley, verde, omaggio del TCI, subito battezzato dispensa, cambusa ci pare esagerato. Sarà la nostra ancora di salvezza. Primo, esplorare il ristorante, sentire gli odori, concludere: si mangia un borsh oppure si prendono birre clandestine, perché nello scompartimento non si beve, ben avvolte in plastica nera, e si apre la dispensa, sapori di casa (dei supplementi freschi parleremo). E la mafia che c’entra? C’entra, c’entra. In partenza eravamo preparati, da veri vecchi combattenti: l’immagine era di armadi palestrati calvi che ti spogliano di tutto, di spacciatori di ogni sostanza, di protettori che ti impongono signorine. Aspettiamo a piè fermo ma non si fa vivo nessuno. Però dobbiamo convincerci che anche la mafia russa ha cambiato tattiche, dalla violenza esplicita e cruenta è passata ad azioni subdole e inaspettate. Perché a mezzo percorso ci accorgiamo che dalla dispensa mancano un salame e ben 4, dico 4, scatolette di tonno. Ci sentiamo beffati da un nemico potente e invisibile. Dobbiamo stare più sul chi vive.

La rotazione

Lo scompartimento ha quattro cuccette. Saremo anche veterani di Montefollonico, ma il rischio di avere a che fare con le scarpe di chissà chi ci è sembrato troppo, così abbiamo comprato pure la quarta cuccetta. Siamo soli, ma a questo punto c’è il problema dell’organizzazione dello spazio e dei posti da occupare. Tutti d’accordo: una cuccetta inferiore viene battezzata “divanetto” e serve per sedere e servirsi dalla dispensa. Ne restano due superiori e una inferiore. Il primo problema è di agilità: chi va sopra deve inerpicarsi su scalette estraibili di metallo che comportano contorsioni e issamenti. Nessuno cede, non si vede perché ci si debba dichiarare meno elastico. Il secondo problema è di maggior peso e spessore scientifico: si viene sballottati di meno se si sta più vicini o più lontani dalle rotaie? L’oscillazione si avverte più in basso o più in alto? Si scomodano esperienze di barca: sottocoperta, sul ponte o arrampicati su un albero? Nessuno si convince veramente. Non resta che la rotazione. Basta ricordarsi ogni volta chi stava sotto e chi sopra nella tratta precedente. Per di più, le rispettive posizioni teoriche sulla differente oscillazione vengono puntualmente confermate a ciascuno dalla pratica.  Ma siamo anche generosi, a chi legge più tardi la notte volentieri si concede più spesso la superiore, dotata di miglior lumino. E lo sballottamento notturno continua, sotto e sopra.

Il finestrino e l’amica noia

Il paesaggio scorre, scorre. Boschi, boschi. Betulle e pini neri. Fiori bianchi e viola. Si guarda, si guarda. Il finestrino viene battezzato la televisione, associazione specchio dei tempi. Arriva la noia, la santa noia. Puoi sfidare un compagno a scopa, farti un tè, leggere. Ma la noia ti insegue. Conviene fartela amica. Quando gli occhi non vogliono più guardare fuori cominciare a guardare dentro, prendere le distanze, vagare. Capire che il viaggio è anche questo, che in fondo questo volevi. È roba per gente forte. E sei contento. La noia te la tieni, la culli. Capisci che non è un sentimento triste. Poi arriva l’ora di cena, il ristorante, la birra, fare il letto, assecondare il rollio. Saluti l’amica noia e chiudi gli occhi.

Giustizia è fatta

A Ekaterinenburg piove. Possibile aver lasciato a casa la kway? Imperdonabile. Dall’albergo è difficile allontanarsi con due felpe e una giacca a vento. Uno scova un ristorante vicino, tailandese-kazaco-mongolo, tutto un programma. Invece il giovanotto che ci serve è simpatico e la roba è buona. Su i cappucci e si torna in albergo. Mattinata senza acqua, l’obiettivo è preciso. Il titolo è quello del post su Fb, un poco cinico, ma questo è lo spirito dei tre. Arriviamo sul posto, la solita chiesa torta di nozze pacchiana copre il luogo dello sterminio del Romanov. I bianchi avanzavano e se avessero preso la città e lo zar le sorti della guerra civile avrebbero preso una brutta piega per i rossi. Il soviet di Ekaterinenburg non trovò altra soluzione. Così è andata. Ci raccogliamo un attimo e poi andiamo a visitare quel che resta delle costruzioni di legno tradizionali, affogate tra condomini sovietici. Questo è peggio. Ricomincia la pioggia, primo pomeriggio in hotel, uno occupato dal wifi, poi alla stazione, attenti al putch, per un grande salto.

Autografi

Novosibirsk è soltanto uno scalo. Dopo 24 ore di rotaia 4 di attesa del nuovo treno, destinazione Irkusk. La tratta più lunga insieme alla futura Ulanbaatar-Pechino. Una stazione grande e decisamente lugubre, una piazza esterna enorme e deserta, self service poco invitanti. Dunque a sedere nell’immensa sala d’aspetto circondati dai trolley e armarsi di pazienza. Ma la buona sorte è dalla nostra parte. Ci nota un gruppo di ragazzini tra i nove e i dodici. Ci facciamo capire, Italia. La risposta canonica: Del Piero. Roma: ovvio, Francesco Totti. Sono carini, educati, eccitati, ci fanno vedere una coppa, sono una squadra di pulcini che ha appena vinto un torneo, tornano  a casa chissà dove. Più di un’ora di chiacchiere serrate e foto, in due lingue che non comunicano tra loro ma punteggiate di nomi di squadre e campioni, che danno lo spunto a discorsi interminabili quanto incomprensibili. Per fortuna due di noi sono degli esperti, ma anche il terzo si diverte. La conclusione è inaspettata, ha del commovente. Confabulano e spariscono  per qualche minuto, tornano con le sacche sportive. Tirano fuori scarpini e una penna. Vogliono l’autografo. Proviamo a schermirci, non siamo nessuno. Ma poi, forse perché sono i primi autografi che firmiamo, forse e soprattutto perché vediamo che ci tengono, concediamo le nostre auguste firme. Rimettono soddisfatti gli scarpini nelle sacche, potenza dei riti televisivi, l’accompagnatore li chiama, per loro è ora, salutano sorridenti e si incolonnano. Inteneriti, siamo addirittura disposti a prendere un panino e una birra ad un chiosco. Tra un po’ il putch si accende.

Fermate

Per due di noi le fermate sono un miraggio, si scende a fumare. Cioè, si può scendere solo se la fermata dura più di dieci minuti. Con fatica, tra cirillico e ora di Mosca, si può decifrare il quadro del percorso affisso nel vagone, e aspettare la prossima, orologi alla mano. Prima di tutto accendere e concentrarsi sul fumo. Poi guardarsi intorno. Perpendicolari al treno in sosta si formano file di donne. La gran maggioranza di taglia forte. Venditrici di binario. Esibiscono poca merce. Frutti di bosco, un po’ avvizziti. Soprattutto pesce affumicato. Una, intraprendente, ha preso da casa una stampella da armadio e ci porta appesi i pesci. Stanno in riga silenziose, non cercano di attirare i clienti, aspettano. I pesci giallo oro ci attirano, ma non ci azzardiamo, la strada è lunga, serve prudenza all’altezza delle viscere. Fuori dalla file, individualismo maschile, un ortolano offre pomodori e cetrioli, pochi rubli e sono nostri, perfetti per il tonno, oggi facciamo a meno di insaccati. Tempo di accenderne un’altra, poi la responsabile del vagone ci ricaccia dentro.

Il vagone dormitorio

Vabbene vecchi combattenti, veterani di Montefollonico, ma dopo lunga incertezza questo lo abbiamo evitato. Il vagone dormitorio nei treni russi è una carrozza senza divisori, con sei cuccette nello spazio di uno scompartimento, che però non c’è. Quattro cuccette perpendicolari alla marcia del treno e due parallele, lungo il corridoio. Così si sta tutti insieme, da svegli e mentre si dorme. Ci dicevano e si leggeva: è qui che si socializza, che si mangia insieme, che si impara un po’ di russo, che si ha il brivido del pericolo. Ci sarebbe piaciuto, ma un po’ di consapevolezza dei propri limiti ci vuole. Così il vagone dormitorio lo abbiamo solo attraversato, direzione vagone ristorante. Il genius loci comunque è l’informatica: ragazzini con tablet e smartphone, laptop, lettori di dvd, cuffiette di ipod. Un po’ di delusione. Ma c’è anche la mamma che taglie striscioline di pesce affumicato alla bimba (che tentazione di chiedere un assaggio, che magari alla prossima fermata…), pance esibite senza timidezze, decolleté sudati, partite a carte indecifrabili, bagagli e pacchi di ogni tipo, conversazioni, sonno, strilli di neonati. Guardiamo furtivi, non è più per noi, ma si puo’ sempre sognare. Senza sogni non staremmo qui.

Irkusk. No, Kolchak no

Eccoci. Ci aspetta Larissa, la nostra scorta sul Baikal. Sui cinquantacinque, competente. Insegna all’Università spagnolo, guarda caso imparato a Cuba, arrotonda nelle vacanze facendo la guida. La sentiamo parlare russo, del tutto fluente. Appena passa all’italiano, accettabile,  fa strane e frequenti doppie aspirazioni, tratteniamo le risate come ragazzini. Rapido giro della città, patria dei Decabristi. Ancora case tradizionali di legno assediate dai palazzoni sovietici, poche restaurate, una bella messa a museo. Piove e le felpe si inzuppano. La splendida casa di un commerciante ebreo, con la stella di Davide che campeggia sulla facciata, l’Angara che scorre grigio. Chiese ortodosse sempre piuttosto uguali, bianche con cupole d’oro, meno una, rosso mattone. Entriamo e ci viene incontro un personaggio coi capelli lunghi che interrompe il lavoro di pittura murale. Parla italiano, ha studiato pittura rinascimentale da noi. I soviet avevano lasciato andare la chiesa,  lui ha cominciato a rifare gli affreschi, sta lì da solo da quindici anni, in un tripudio di immagini seminaif e di marmi, che ci dice ormai arrivano dalla Cina. Lo complimentiamo doverosamente, un bell’impegno, quando finirà non lo sa nemmeno lui. Poi andiamo sul lungofiume e sbattiamo contro un monumento. Decifriamo: no, non è vero. Altro che i ragazzi di Salò. Troneggia un enorme Kolchak, ignobile e sanguinario, fucilato, capo della controrivoluzione bianca. Sotto un  soldato rosso e uno bianco fraternizzano. Pacificazione in nome della grande Russia. Per noi rischia di essere troppo. Larissa è donna pacata. Basta che non si pronunci la parola Gorbaciov, diventa una vipera, quello ha svenduto l’orgoglio nazionale. Putin? Diamogli tempo, magari esagera un po’ ma sta sulla strada giusta della grandezza.

Toponomastica

Pomeriggio libero, come in ogni programma che si rispetti. Ci avventuriamo cartina alla mano. Le strade sono liquido amniotico. A un passo dall’albergo la Lenina, poche centinaia di metri e siamo sulla Karla Marksa, l’arteria principale della città, giustamente. Che c’entra col monumento a Kolchak? Di nuovo il meglio e il peggio che si mischiano, si confondono, fanno confusione. Capiamo che tutte quelle a dei nomi sono dei dativi, per chi ha fatto analisi logica, cioè dedicata a. Un ritratto sotto il Lenin Street Café, plagio del cerchio di Starbuck, subito da postare su fb appena c’è un wifi disponibile. Poi foto di tutte le targhe. Sulla Marksa pochi negozi di marche globali, tutto un po’ polveroso. A destra una via pedonale assai poco attraente. Ma in fondo i colori di un mercato. Ogni ben di dio ortofrutticolo. Da dove vengono i prodotti in questa landa siberiana di betulle e pini neri difficile dire, e domandarlo ai venditori è proibitivo. Ci accontentiamo di passeggiare tra fragole,  pomodori, insalate, ortaggi e soprattutto montagne di pinoli di cedro, come li chiamano, questi sì autoctoni, che danno un gusto ottimo ad una vodka speciale, gradita a due su tre. Al coperto tutti gli altri generi, ci passiamo un’ora tra tè,  pesci affumicati, carni un po’ scure, guardiamo i prezzi, facciamo timidamente sociologia/economia. Vorremmo bere un caffè per poi andare a cena al ristorante mongolo indicato come top, vaghiamo inutilmente e ci ritroviamo in via Gogol, il nostro obiettivo. Carni ottime e troppo abbondanti, ma va bene. Usciamo e col buio prendiamo la direzione sbagliata, dopo mezz’ora di inutile vagare cediamo alle profferte di un tassista che ci riporta al sicuro.

Il Baikal è troppo grande

Lungo tragitto verso il lago. Strada dritta che sembra disegnata, betulle di qua e di là, Larissa che intrattiene e aspira. Scendiamo in una foresta, ancora betulle, capanne di corteccia ricostruite dei primi abitanti, gli evenki, poi un villaggio di case di legno, palizzate, una chiesa pure di legno, tutto ricostruito. E del lago nessuna traccia. Serpeggia nervosismo, siamo venuti per il grande specchio d’acqua. Finalmente una terrazza panoramica, e davanti la distesa del Baikal, ma ancora in lontananza. Siamo arrivati. Sì, ma prima il museo, lo prevede il tour. C’è chi si innervosisce proprio, Larissa lo percepisce, aspira imbarazzata, ma deve rispettare il programma. Invece il museo ci dice tanto. Che il Baikal è il più grande lago d’acqua dolce al mondo, che è profondo 1643 metri, incredibile. Poi fauna e flora, vediamo per la prima volta la lince siberiana, impagliata, grossa come un leopardo. E all’acquario la foca del Baikal, grassissima per il freddo, sembra un pallone da rugby. Adesso però basta, vogliamo l’acqua. Scendiamo sulla riva e scopriamo che il giro in barca è facoltativo, a pagamento. Siamo disposti a pagare qualsiasi cifra, sborsiamo e ci imbarchiamo. Per scoprire che il Baikal è troppo grande. Acqua a perdita d’occhio, dimensioni e punti di riferimento se ne vanno, se guardi a terra potresti stare su un lago qualsiasi. Ma stiamo navigando sul Baikal, era l’obiettivo, cerchiamo l’emozione, forse la troviamo. E meno male che siamo stati al museo, le informazioni raccolte servono a creare atmosfera, guardando l’orizzonte d’acqua. Attracchiamo dopo un paio d’ore e ci avventiamo su un delizioso pesce alla griglia. Larissa aspira più rilassata.

Siamo in Mongolia

E già questo è emozionante, ci siamo arrivati. Solo mille chilometri, una notte, poche fermate, e il paesaggio si allarga, gli alberi si allontanano dai binari, la Siberia ce la siamo messa alle spalle. Scendiamo a Ulanbaatar e Nima è là che ci cerca. Ha un italiano rigido, dignitoso. Il difetto è la comprensione. Forse parliamo troppo svelti? Comincia un gioco degli equivoci. Ogni tanto snervante, tutto sommato divertente. Perché se Nima non capisce cosa gli hai chiesto risponde con frasi del genere: avete sete? domani partiamo per la steppa, i mongoli mangiano la pasta, vi scappa la pipì? Non resta che stare al gioco. Lasciati in albergo, doccia e notte senza scosse. Ancora una giornata libera, il  programma è stringente. Poche centinaia di metri e siamo alla piazza Sukhbaatar: prende il nome dall’eroe sovietico fondatore della Mongolia comunsta, è enorme, vuota, il monumento equestre dell’eroe su un lato. Ma chi troneggia, effettivamente in trono, nel colonnato del palazzo del Parlamento è un enorme Gengis Khan, il terribile Temujin, ammonimento e ricordo dell’impero più grande della storia umana, dalla Cina all’Ungheria, troppo grande, durato poco. Alcuni tempi decisamente mediocri, sempre affogati nei condomini, ma ci abbiamo fatto il callo, poi in marcia vero il tempio più significativo. La cartina è sommaria, le distanze non quadrano, le indicazioni dei passanti contraddittorie. Un viale che sembra un’autostrada, dall’altra parte una collinetta, il più audace si avventura ad attraversare, gli altri seguono. La collinetta nasconde un borghetto che fa pensare a Brutti sporchi e cattivi. Ci siamo persi. No, basta attraversare la baraccopoli, con qualche apprensione, e il tempio agognato si profila.  Ci piace due volte, anche se l’originalità grande non è. Perché è sicuramente imponente, frequentato, e soprattutto perché l’abbiamo trovato. La via del ritorno è più tranquilla, ormai Ulanbaatar la possediamo. Ci mettiamo sulla terrazza di un ristorantino e dieci minuti dopo si scatena un inferno d’acqua, ci rifugiamo dentro, mangiamo in modo decente e aspettiamo che spiova. Riposo e poi tentativo di shopping, sul Viale della Pace. Tentativo frustrato, paccottiglia da un lato, magliette destinate a figli e nipoti della taglia sbagliata. Poi l’enorme Grande Magazzino di Stato, un ritorno di fiamma sovietico. Quattro piani senza interesse, il quinto ogni ben di dio da turisti, dalle pellicce, costose e politicamente scorrette, ai cappellini, alle magliette, impilate senza ordine di taglia. Facciamo il pieno, sperando che vadano bene. Cena con tagliatelle e kebab mongolo, una volta tanto un po’ di vino, australiano, cattivo e carissimo ma pazienza. Domani si va in pista.

Nel Land Cruiser si sta stetti

Nima ci aspetta dopo colazione con Land Cruiser e autista. Lei continua coi suoi soliloqui, lui è silenzioso. Ha dei mezzi guanti da Sorpasso e un cappellino che noi chiamiamo subito portafortuna: la visiera è rotta, si vede il cartone dell’interno, sembra il logo dei Rolling Stones. Ci convinciamo che lo tiene per non andare fuori strada, e ci sta bene così. Usciamo da Ulanbaatar e ci mettiamo su una strada che sembra una fettuccia di tessuto stesa sul vuoto della steppa, una curva neanche a pensarci. Ricorda le strade della California, non fosse per le buche. Il Land Cruiser da fuori sembra immenso. Invece è tutto motore e bagagliaio. In cinque nell’abitacolo si sta stretti, tanto stretti. E si salta, si salta su sospensioni rigide, anche sull’asfalto accidentato. Poi si svolta all’improvviso, si lascia la fettuccia e sei nel nulla, solo l’uomo dei guanti e del cappellino portafortuna sa come andare. Ti tieni con due mani, lui segue una pista, la lascia, entra in un torrente, risale, ritrova la pista. Sembra abbia imparato da piccolo col padre, che faceva lo stesso mestiere. E intanto costeggiamo mandrie infinite, mentre all’orizzonte ci sono sempre colline verdi, nessun albero, e le colline stranamente non si raggiungono mai, scompaiono e ce ne sono sempre altre. Se cercavi lo spaesamento l’hai trovato. Un po’ di statistica: la Mongolia è cinque volte l’Italia, ha tre milioni di abitanti e 44 milioni di capi di bestiame, cavalli, cammelli, capre pecore, yak. Strana informazione: ogni mongolo,  uomo, donna, bambino, ha 113 cavalli. Che ci farà un neonato con 113 cavalli è un mistero, ma forse serve solo a dare un’idea. Fortuna che Nima è quella che fa più pipì di tutti, e deve pure cercare un qualche avvallamento per discrezione, così abbiamo soste frequenti che altrimenti non avremmo osato chiedere. A pranzo dall’enorme bagagliaio che ruba spazio agli umani escono sedioline, contenitori di cibo più o meno commestibile, termos. Mangiare in mezzo al nulla fa proprio chic. Ci aspetta la iurta (per gli ignari che usano il termine russo, ma la ger per chi come noi ormai mastica mongolo) della famiglia nomade. Tutto intorno mandrie miste, fuori l’uomo che si affanna attorno al motore di una moto, strumento buttero del  XXI  secolo, dentro un pupetto che si avventa sui wafer che abbiamo portato e soprattutto su una bottiglietta d’acqua minerale, e la donna che batte il burro di yak. La conversazione langue, normale. Circola una tazza di latte di giumenta fermentato. Noi ci intingiamo la punta della lingua, l’autista la scola e ne chiede ancora un po’. Anche questa è fatta. Due giorni ancora di piste, di orizzonti a perdita d’occhio, di verde, di tracciati appena visibili. Notti in ger, comode e spaziose, cene con carne difficile da masticare, perché qui si macellano bestie anziane. Notti con stellati inconcepibili. I servizi lasciano a desiderare, ma rapidamente saremo di nuovo in albergo, e un po’ di sudiciume non ha mai ammazzato nessuno. Riguadagniamo la fettuccia d’asfalto disastrata con sollievo e rimpianto, chi ha detto che il ricordo è meglio dell’esperienza diretta?

Ultima tratta. Lo scartamento

Risaliamo in treno, ormai ci sembra l’unico modo di vivere. Già siamo su un vagone cinese, oltre ai caratteri ce lo dicono la falce e martello dello stemma e le laccature rosse. Siamo a 31 ore e a un fuso orario da Pechino. Un gioco da ragazzi, ne abbiamo dietro 110. Ma dimenticavamo il cambio di scartamento. Perché è noto che i binari russi sono più larghi di circa 10 centimetri di quelli di tutto il resto del mondo. Sono i binari che insieme al Generale inverno hanno salvato l’Unione sovietica dall’invasione nazista. La Wermacht aveva pochi carrelli più larghi, e i camion dei rifornimenti affondavano prima nella neve e poi nel fango. Dunque rispetto per la loro funzione storica. Anche se dopo due ore di sosta all’uscita dalla Mongolia ce ne aspettano altre sei per la sostituzione dei carrelli con quelli cinesi. Il treno entra in un hangar. Tutti i vagoni vengono staccati. Macchine ciclopiche sollevano i vagoni. I carrelli russi vengono tolti, quelli cinesi inseriti, i vagoni calati sui nuovi carrelli.  Detto così sembra cosa da nulla. Ogni operazione è all’insegna di colpi terribili, che fanno cadere le bottiglie che hai suo tavolo dello scompartimento, che ti rompono i timpani, che ti svegliano se dormi, che ti fanno credere di essere sotto un bombardamento. Hai voglia a rendere omaggio alla grande guerra patriottica, si senti come la pallina di un flipper. Alle quattro del mattino sembra si possa scendere, dopo gli ultimi colpi. Uno riesce chissà come a rimanere addormentato, due sul marciapiede con uno che fuma, sembra di essere scesi in strada per un terremoto. Lo sapevamo, ma la realtà supera la narrazione. Siamo sullo scartamento mondiale, avanti.

Pechino è casa

Per tutti e tre Pechino è casa, ci siamo stati tante volte. Già il paesaggio cinese è più familiare, agricolo, distese di mais a perdita d’occhio. Il Bamboo garden ci aspetta come sempre. Il treno entra in stazione e siamo tentati di dire è fatta, ma ci tratteniamo, manca ancora parecchio. E appunto. Non capiamo in che stazione siamo arrivati. Non abbiamo in tasca il becco di uno yuan. Veniamo catapultati in un piazzale esterno stipato di gente all’inverosimile. E intanto sembra di stare in una nuvola di vapore che esce da un ferro da stiro. Un minuto e siamo fradici. Uno si avventura a chiedere dove si può cambiare del denaro, mentre gli altri aspettano sotto il sole di mezzogiorno. Torna con l’informazione. Un altro parte verso la banca, fortunato lui perché c’è l’aria condizionata, torna dopo mezz’ora con la paura di trovare i compagni stramazzati, ma no, siamo gente tosta. Ora il taxi. Regola di Pechino, non mettere le valigie in macchina prima di essere certi che l’occhio del tassista dica che ha capito dove deve andare leggendo l’indirizzo dell’albergo in cinese. Al terzo sembra proprio che quei caratteri dicano qualcosa. Carichiamo e partiamo. Superstrade,  punti di riferimento inesistenti. Dubbio che l’uomo ci porti a fare un giro. Poi uno svincolo, si esce e compaiono i bambini di bronzo che abbelliscono la stazione della metro a un passo dall’albergo. Il tassista è il nostro eroe. La mancia è lauta.

Ci siamo quasi

Siamo stanchi. Usciamo dal’albergo nel primo pomeriggio e tutto quel che riusciamo a fare è andare  vedere la nuova sistemazione dello spazio tra la Torre del Tamburo e la Torre della Campana, a un tiro di schioppo. Poi una birra e un piatto di ravioli ai laghetti imperiali. All’amica di Pechino, sempre di una disponibilità ineffabile, avevamo chiesto di portarci a cena alla Ghiacciaia Imperiale, locale immenso dove veramente veniva conservato nei sotterranei il ghiaccio per la corte. Viene a prenderci, il marito cinese al volante, non comunichiamo gran che ma è di un sorridente e di una simpatia da non credere, e la figlia ventenne, graziosa da mangiare. Lui ci accompagna e si ritira, noi passiamo una serata da non credere tra un turbinio di piatti squisiti in un ambiente familiare, che ci accoglie come l’ultima volta. La cameriera capo dice di ricordarsi di me che gli faccio la corte, non è vero ma fa piacere comunque. Ricompare lo straordinario padre, ci riporta in albergo, sì siamo proprio a casa.

Ultime ore

La giornata finale. Andare banalmente per una megalopoli che si fa finta di conoscere. Prendere la metro, scendere a Qianmen, scegliere il lato in ombra e fare con disinvoltura gli ultimi acquisti nell’interm

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