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Un aspetto poco conosciuto della nascita dello Stato d’Israele: “I bambini di Moshe” di Sergio Luzzatto

Sergio Luzzatto

I bambini di Moshe, Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele

Torino, Einaudi, 2018

 

Nel suo nuovo saggio storico Luzzatto ci racconta storie di sommersi e salvati da un’angolatura particolare, quella dell’avventura-progetto di Moshe Zeiri, “salito” in Palestina già negli anni Trenta, quando alcuni ebrei, soprattutto giovani (pur sempre una minoranza) ebbero la percezione del pericolo imminente e raccolsero l’appello del sionismo a migrare nella nuova patria ritrovata.

Particolarmente attiva, subito dopo l’avvento di Hitler al potere, la Jugend-Alijah, l’Associazione giovanile sionistica che si proponeva di salvare una generazione dalla imminente Shoah. Responsabile dell’ufficio di Parigi era Hanna Arendt, che incoraggiava i giovani a partire, vincendo la ritrosia dei genitori. Anche i nazisti collaborano al progetto (tra loro Eichmann), che portò all’emigrazione di un migliaio di giovani ebrei tedeschi per i kibbutz israeliani.E’ il caso di Trude Meyer, la figlia di un commerciante di carni che diventerà la sposa di Moshe.

Moshe fa invece parte degli ebrei dell’Europa orientale che “salgono” dalla Polonia, Lituania e Ucraina fuggendo la miseria e la persecuzione quotidiana. Si ritrovano, questi giovani profughi,  nella dura esperienza agricola dei kibbutz, più difficile per i tedeschi appartenenti a classi medie agiate, meno ostica per chi era già abituato al lavoro manuale e a lottare per la sopravvivenza.  Moshe insegna l’ebraico a Trude e nasce l’amore: lei è ribattezzata  Yehudit, Giuditta e nel 1939 si sposano.

La ricostruzione della loro vicenda, attraverso foto e lettere, si intreccia con tanti altri fili: tanti altri ragazzini e adolescenti ebrei destinati ad essere travolti dalla catastrofe imminente, e che si ritroveranno congiunti dopo la guerra e i campi di sterminio, in una nuova  “salita” in Palestina. Tanti sono i documenti consultati, le tracce ricostruite, grazie alla ricerca dell’autore e all’efficienza dell’organizzazione della memoria dell’Olocausto negli archivi di Gerusalemme, che spesso si rischia di perdere il filo del racconto.

Veniamo immersi nelle vicende della persecuzione degli ebrei in Europa, moltiplicata dallo scoppio della guerra, mentre Moshe matura la decisione di farsi reclutare nel corpo di spedizione britannico in Europa partendo al soccorso dei fratelli.

Ebrei della Palestina che sbarcano come liberatori, a riscattare i prigionieri e i sopravvissuti in rocambolesche fughe e improbabili nascondigli, tra i quali anche alcuni combattenti partigiani nelle foreste dell’Europa orientale, a fianco dei sovietici. Moshe, che fa la campagna d’Italia,  non rientra dopo la Liberazione, ma si installa a Milano per organizzare un progetto di riscatto degli orfani da riportare in Palestina. E trova una sede ideale nel bergamasco, dove avviare un’esperienza educativa modello, a Selvino, in una ex Casa del Duce  colonia del fascismo che è riuscito a far assegnare alla Comunità ebraica grazie al sostegno di Remo Cantoni, commissario straordinario della comunità israelitica di Milano. A collaborare con lui Matilde Cassin attiva già nella Firenze dell’anteguerra nel movimento sionista, Reuven Donath, altro volontario nella compagnia britannica, ed Eugenia Cohen, ebrea turco-milanese..

Una casa dell’Orfano che sarà l’accoglienza principale per 200 orfani della Shoah profughi in Italia, sull’esempio delle esperienze educative avviate in Polonia negli anni Trenta da Janusz Korczak, fondatore dell’orfanatrofio di Varsavia. Ma c’è da fare i conti col trauma indelebile della Soluzione finale, che segna profondamente i ragazzi, e che Moshe vorrebbe fosse messo da parte, tra parentesi,  per proiettarsi verso il futuro.  E si parte dalla perdita della lingua, dalla rinuncia all’yiddish per apprendere l’ebraico.

Il sogno di Moshe è di preparare i ragazzi per un kibbutz in cui si concentrino e restino uniti. Invece sarà altrimenti, perché le partenze verso la Palestina ancora sotto controllo britannico sono scaglionate, e molti finiranno nei campi di concentramento di Cipro dove vengono deportati dagli inglesi i profughi in arrivo, in eccesso rispetto alle quote stabilite. Tra il 1946 e 1947 numerose sono le partenze dall’Italia via mare e perfino per via aerea: l’ondata di fuggiaschi soprattutto dalla Polonia ha difficoltà ad essere riassorbita nella nuova patria ebraica e si acuiscono le tensioni con gli arabi residenti. I ragazzi di Moshe si disperdono tra vari kibbutz e diventano combattenti del costituendo esercito israeliano. Molti scelgono gli avamposti di confine, non volendo più essere vittime ma combattenti (e del resto a Selvino c’era stato anche un po’ di addestramento militare), e si distingueranno come soldati nella guerra del 1948.

Come scrive l’autore:

“La fine dell’Esilio corrisponde con l’inizio di un esilio. Decine di migliaia di profughi ebrei- in maggioranza sopravvissuti della Shoah- trovano una patria quando la perdono centinaia di migliaia di profughi arabi”.

A Selvino si festeggia la proclamazione della nascita dello Stato di Israele: la casa degli orfani chiude e Moshe Zeiri con la moglie Yehudit (che lo aveva nel frattempo raggiunto) si imbarcano con tutti i bambini rimasti alla Stazione marittima di Napoli il 2 novembre 1948. Si dislocheranno in vari kibbutz, ma non tutti vi rimarranno, e dovranno comunque fare i conti con le difficoltà di adattamento e con il disprezzo e la diffidenza che i sabra (gli ebrei nativi) nutrono nei confronti degli ebrei europei sopravvissuti all’Olocausto.

Inizia un nuovo capitolo, in cui il riscatto e la fierezza di impugnare il fucile si intrecciano con un insediamento ai danni di altri che crea nuovi profughi e nuove tensioni.

Una lettura densa, affollata di notizie, attinte in parte alla corrispondenza custodita dalla figlia Nitza in parte dalle scatole nere  allineate  allo Yad Vashem di Gerusalemme, un “sacrario elevato alla memoria dello sterminio”. Il tema del riscatto e della elaborazione della memoria della Shoah, che Luzzatto aveva già affrontato col libro dedicato all’esperienza partigiana di Primo Levi. Qui fa i conti con un progetto utopico di ripartenza nel nuovo mondo che si scontra con le ferite interiori subite e l’impatto con una terra già occupata in cui farsi largo.  Sono  vicende che  ci sono state raccontate con grande efficacia dagli scrittori israeliani, da Amos Oz a David Grossmann , e non a caso Luzzatto li cita a colmare le  lacune della documentazione, attingendo alla verità universale che la letteratura riesce ad avere.

(SIlvia Calamandrei)

 

 

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