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Sull’onda del film di Annaud….”Il totem del lupo” di Jiang Rong

Ecco qui una recensione del libro da cui è tratto il film “L’ultimo lupo” di Jean-Jacques Annaud, ora nelle sale (primavera 2015):

Jiang Rong

Il totem del lupo

Milano, Mondadori, 2006

(traduzione dal cinese di Maria Gottardi e Monica Morzenti)

 

Lanciato in Italia con interviste scoop che giocano sul disvelamento dell’identità dell’autore Jiang Rong, presentato come dissidente e perseguitato dalla censura, Il totem del lupo è in verità un bestseller cinese del 2004, ampiamente dibattuto  e trasmesso perfino via radio, che ora fa le sue prove sul mercato librario globale, dopo che la Penguin ne ha acquisito i diritti mondiali per 100.000 dollari e una percentuale sulle vendite, con grande soddisfazione dell’agenzia di stampa governativa Nuova Cina, che vi ha visto uno primo sforzo di colmare il deficit nel campo dei diritti d’autore librari, che vede la Cina grande importatrice.

Se il cinema cinese si è ormai assicurato il suo spazio nei grandi numeri delle classifiche, ora è la volta della sfida di una mediocre opera letteraria, pesantemente infarcita di considerazioni filosofico-ideologiche (premesse ad ogni capitolo ma anche spesso in bocca ai giovani protagonisti), che deve molto a Jack London e a Darwin filtrato dalla visione storica di Herbert George Wells (tutti autori tradotti già nella Cina maoista, data la loro appartenenza al filone socialista).

In Cina l’opera è stata lanciata come romanzo filosofico antropologico, con un messaggio di sfida alla tradizionale passività cinese, che contrappone le pecore contadine della etnia Han, sottomesse al totem del Drago, allo spirito eroico ed aggressivo dei cavalieri di Gengis Khan, ispirati dal lupo totemico. Ancora una volta, come ai tempi dell’Elegia del fiume, la serie televisiva trasmessa nel 1988 e considerata una delle premesse culturali della rivolta di Tienanmen, un autore cinese invita a scuotersi dall’arroccamento dietro la Grande Muraglia e dalla tradizione autoritaria, per occidentalizzarsi e meglio competere su scala mondiale. Ed il romanzo è andato a ruba tra i giovani manager cinesi, generando una serie di imitazioni manualistiche sulla “strategia del lupo”, da adottare per meglio farsi valere sui mercati mondiali.

Le centinaia di migliaia di copie vendute sono però attribuibili soprattutto allo stile popolare della narrazione e al fascino esotico (anche per i cinesi) delle descrizioni della vita nella prateria della Mongolia interna, regione del nord-ovest della Cina, una sorta di Far West in cui il protagonista e i suoi giovani compagni studenti di Pechino si trasferiscono nel 1967, per restarvi nel decennio della Rivoluzione culturale. Una saga della steppa di quarant’anni fa, quando i pascoli erano ancora verdi e l’equilibrio ecologico tra le varie specie animali e vegetali era preservato grazie alla scarsa densità  della presenza dei pastori nomadi, in coesistenza-lotta coi lupi.  E questi aspetti possono essere ragioni di successo del libro in Occidente, inserendolo nel filone di una letteratura ecologista un po’ misticheggiante.

L’autore non fa che narrare nostalgicamente le memorie della sua gioventù di pechinese trasferito a contatto con la natura selvaggia e la lezione appresa dai vecchi pastori che si oppongono invano alla trasformazione dei pascoli in terreni da dissodare per l’agricoltura e l’allevamento intensivo, con l’inevitabile conseguenza della desertificazione. In questo senso il romanzo si apparenta alla “ricerca delle radici” che ha pervaso tanta letteratura cinese della generazione della rivoluzione culturale : i “giovani istruiti” dispersi nella Cina profonda, come le talpe ne scavano la memoria atavica, portando alla luce identità sepolte sotto la superficie del foglio bianco su cui Mao voleva iscrivere il suo progetto rivoluzionario.

Sotto lo pseudonimo di Jiang Rong, come ci ha rivelato Fabio Cavalera nella sua corrispondenza su La Stampa da Pechino, si cela in effetti il sessantenne Lu Jiamin, incarcerato per alcuni anni dopo la primavera di Pechino del 1989, e che ha trascorso in gioventù più di dieci anni (1967-79) nella Mongolia interna. Non appartiene ai “ribelli” ma alla prima ondata di trasferimenti dei “giovani istruiti”, che colpisce soprattutto i figli dei comunisti che  “avevano imboccato la via del capitalismo” e dei professori, vittime delle Guardie Rosse. Il protagonista Chen Zhen è il suo alter ego, che deplora gli eccessi  delle Guardie Rosse e la lotta “contro i quattro vecchiumi” che distrugge le tradizioni. Nell’altipiano mongolo scopre le virtù dei “barbari che avevano terrorizzato mezzo mondo” e impara che le stragi degli erbivori (gazzelle, cavalli, marmotte, roditori) perpetrate dai lupi garantiscono la vita della prateria, tanto da scontrarsi con un ex leader di una fazione delle Guardie Rosse che vorrebbe organizzare le masse contro i lupi. Si oppone alla “sinizzazione” promossa dal governo, che trasferisce contadini cinesi a dissodare e coltivare la terra, e cerca di identificarsi con i pastori mongoli fino a tentare l’impresa di allevare un lupacchiotto per meglio apprendere lo spirito dei lupi.  Le parti descrittive, in cui l’autore nutre la sua memoria diretta con studi di etologia e ecologia coltivati nei decenni successivi, sono vivaci e dettagliatissime: possiamo perfino apprendere la composizione dello sterco di lupo e non ci vengono risparmiati i particolari più cruenti (per questo non sembra un libro destinato all’infanzia).

Pesanti e al limite del grottesco, se non decisamente reazionarie, le considerazioni che il protagonista continuamente elabora sulla “spietata lotta per la vita che governa il mondo”: la lezione è che “un popolo, se non vuole essere schiacciato dai suoi simili, deve possedere un coraggio e un temperamento da predatore” e i cinesi Han vengono stigmatizzati come un gregge di pecore “privo di spina dorsale”. E ancora, dopo averci descritto la “guerra all’ultimo sangue tra milioni di spermatozoi che si uccidono gli uni dopo gli altri, disseminando l’utero di cadaveri” la conclusione che “la vita nasce dalla guerra ed è la guerra il senso del nostro destino” e che “le grandi civiltà agricole della storia sono state distrutte perché si illudevano di prosperare in una pace arcadica, separate dalle contese del mondo”, mentre le altre civiltà progredivano e si espandevano. La persuasione infine che le “grandi potenze mondiali odierne discendono dalle antiche etnie di nomadi, di navigatori, di commercianti”, che hanno una “forza vitale superiore a quella delle popolazioni contadine dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India”. Insomma una cattiva rimasticatura di darwinismo inizio secolo, condita da una vena di romanticismo nostalgico coltivato dall’amico del protagonista Yang Ke, che ha il mito il Lago dei cigni, nella versione ballata da Galina Ulanova,  proibito da Jiang Qing per far posto al Distaccamento femminile rosso. Yang Ke non riesce neppure ad opporsi alla caccia ai cigni scatenata dai cinesi immigrati e dai militari dell’Esercito, golosi della loro carne. Non riesce a trovare una citazione del Libretto rosso per convincerli a smetterla con la loro “furia distruttiva”, non gli viene in mente  neppure uno scritto o un discorso di Mao “che condannasse la caccia agli uccelli rari”: ha buon gioco il delegato dell’esercito a rinfacciargli che “i cigni sono notoriamente la passione dei revisionisti sovietici” e a minacciare di criticarlo come “elemento di destra” per la sua difesa degli animali a rischio di estinzione.

La filosofia del protagonista è dichiaratamente anti-confuciana e anti-contadina: Chen Zhen è convinto che “una terra di contadini reclama un imperatore, non si batte per la repubblica”, mentre il lupo sarebbe simbolo di libertà e democrazia. Forse il successo del libro nella Cina urbana attesta un’identità più marcata ed aggressiva delle nuovi classi medie, che vogliono ispirarsi all’homo homini lupus liquidando le vestigia del mito egualitario contadino. E’ sicuro comunque che l’infarcitura ideologica mal si adatta al lettore occidentale, che ne farebbe volentieri a meno e può anche inquietarsi del mito aggressivo invocato per farsi largo a livello mondiale. C’è da chiedersi se l’editing fatto dalla Mondadori, anziché sostituire “giovani intellettuali” a “giovani istruiti”, non avrebbe dovuto spingersi oltre.

(SIlvia Calamandrei)

 

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