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RECENSIONE. Yang Jisheng , Lapidi, Adelphi 2024, traduzione di Natalia Francesca Riva

Yang Jisheng , Lapidi, Adelphi 2024, traduzione di Natalia Francesca Riva

Contro l’amnesia storica una indagine sui disastri del Grande Balzo in avanti

Quest’opera, arriva in Italia tardivamente, come tardivamente fu pubblicato Vita e destino di Grossman, e sempre per merito di Adelphi. Già note agli specialisti nelle loro versioni inglesi o francesi, queste opere marcano uno spartiacque conoscitivo perché sono testimonianze dall’interno sul funzionamento dei meccanismi totalitari, frutto di un’esperienza diretta e meditata, cariche quindi di vissuto personale e collettivo.

Per questo sarebbe opportuno che Adelphi proseguisse nel suo sforzo editoriale offrendo al pubblico italiano l’opera che ha fatto seguito a Lapidi, Rovesciare cielo e terra, la storia della Grande rivoluzione culturale, con la quale Yang Jisheng ha completato la sua ricostruzione degli anni del Maoismo in Cina. Entrambi i libri sono stati concepiti in Cina lavorando sulla documentazione disponibile, in una fase in cui gli archivi erano più facilmente consultabili, e sono frutto anche di tanti contatti e colloqui dell’autore. Per questo si tratta di opere incomparabili  con quelle dei tanti studiosi stranieri che si sono addentrati nelle ricostruzioni, e accendono anche la speranza che in Cina la memoria storica continui ad essere preservata, nonostante le tante cancellazioni e falsificazioni.

Molti spazi si sono chiusi da quando il giornalista cinese è riuscito a pubblicare nel 2008 il suo primo studio-inchiesta ad Hong Kong (2008) w poi il voluminoso saggio sulla Rivoluzione culturale (2016): Hong Kong non è più il luogo della libertà di espressione e stampa che riusciva ad essere, offrendo una valvola di sfogo alla Cina continentale, mentre gli spazi di ricerca e consultazione di archivi si sono grandemente ridotti. La narrazione storica è sotto rigido controllo, altro che “politically correct”!  Perfino ilo scrittore premio Nobel Mo Yan comincia a subire attacchi in rete e minacce di causa per denigrazione dei “martiri della Rivoluzione” (una recente legge apposita) per aver descritto realisticamente personaggi della guerra antigiapponese o della guerra civile, smitizzando le eroicizzazioni. Era già capitato alla scrittrice Fangfang, bollata prima per il suo romanzo sulle vicende della riforma agraria Sepoltura soffice, e più di recente per il diario della pandemia a Wuhan.

Sappiamo comunque da resoconti dell’epoca della Rivoluzione culturale che i materiali proibiti continuavano a circolare in Cina nonostante la censura e i controlli vessatori, e dunque ci auguriamo che le opere di Yang continuino ad alimentare la memoria.

Il lettore non deve farsi spaventare della mole del volume, e può consolarsi sapendo che si tratta di una versione sintetica, approntata con il consenso dell’autore per la diffusione all’estero. I due volumi cinesi erano ben più lunghi, perché frutto di una meticolosa indagine in alcune province colpite dalla Grande carestia seguita al Grande balzo in avanti, senza la quale le considerazioni più generali introduttive e conclusive perderebbero di sostanza: una immersione, uno sprofondare nella tragedia quotidiana di milioni di contadini affamati, scandita dalle decisioni dall’alto ripercosse ancora più rigidamente a livello di base.

E l’indagine del cronista-storico parte dall’impulso di rendere omaggio al proprio padre, perito in quella tragedia, mentre il figlio giovane continuava a credere negli slogan utopistici di mobilitazione e ad avere la vista accecata dalla propaganda ideologica che gli impediva di vedere la realtà. Yang racconta del proprio ritorno a casa, ad assistere il padre morente di fame alla fine di aprile del 1959, e di aver pensato che si trattasse di una sventura familiare, limitata al suo villaggio, da considerare come sacrificio del proprio “piccolo io” in nome del “grande io” collettivo. Gli ci vorranno anni, l’esperienza della Rivoluzione culturale e poi il periodo di “apertura e riforme” stroncato dal massacro di Tian’anmen per aprire gli occhi e per mettere la propria penna di giornalista dell’Agenzia Nuova Cina al servizio della ricerca della verità. La fusione tra vicenda individuale e collettiva ne fa un libro empatico e appassionante, di grande qualità letteraria, en resa dalla traduttrice.

La lapide per il padre e per i milioni di morti della Grande carestia è anche una lapide che l’autore vuole erigere contro il totalitarismo “affinché le future generazioni sappiano che in un certo Paese e in un determinato periodo della storia della società umana, un governo fondato nel nome della “liberazione dell’intera umanità” ha ridotto in schiavitù il suo stesso popolo. La «strada per il paradiso» che quel sistema proclamava e perseguiva  è stata di fatto una strada verso la morte”.

Nel capitolo 15 su Le cause fondamentali della Grande carestia, l’autore solleva alcuni quesiti di fondo sul perché menzogne assurde non furono denunciate da nessuno e su come è stato possibile tenere nascosto per mezzo secolo lo sterminio di decine di milioni di persone a causa della denutrizione.

Da una parte nella sua stessa ricostruzione non manca di dedicare un capitolo alla conferenza di Lushan, durata dal luglio all’agosto del 1959, in cui Peng Dehuai coraggiosamente allertò sui sintomi già evidenti di possibili catastrofi derivanti dalla accelerata industrializzazione e creazione delle Comuni popolari. È una lettura avvincente di uno scontro all’interno del gruppo dirigente del Partito comunista cinese, tutto radunato per settimane a convivere come ai tempi di Yan’an (ma non più nelle grotte), con continui colpi di scena e cambi di schieramento da cui Mao esce vincente nel perseguimento della sua utopia e mette con le spalle al muro il grande generale, abbandonato dai più.

Dall’altra la spiegazione sta nella mancanza di correttivi di un sistema totalitario che combina il dispotismo imperiale tradizionale della Cina con il sistema di potere bolscevico di Lenin e Stalin. E se gli imperatori potevano dire come luigi XIV “lo Stato sino io”, Mao poteva dichiarare “la società sono io”, talmente pervasivo era il dominio del Partito e dell’ideologia.

Nelle conclusioni (e non dimentichiamoci che il libro è datato e la versione per l’estero risale a più di dieci anni fa), l’autore si dice fiducioso sull’avvento della democrazia in Cina, ma è assai cauto e prudente, forse avendo assistito all’esito di Tian’anmen:

Secondo lui “ci vorrà molto tempo” e la “trasformazione del sistema politico non deve essere troppo radicale e affrettata:

“Nell’ultimo secolo il popolo cinese ha subito fin troppe perdite a causa del radicalismo e ha imparato la lezione: un approccio radicale può gettare la società nel caos. Se le azioni drastiche dei democratici radicali e degli anarchici fanno perdere a un regime debole la capacità di controllare la società, gli autocratici ne approfitteranno, perché la dittatura è il mezzo più efficace per porre fine al disordine sociale e stabilire un nuovo ordine. Coloro che tra il popolo non sopportano l’anarchia accoglierebbero un dittatore come un salvatore. Quindi, chi si oppone al sistema autocratico in modo eccessivamente drastico e frettoloso piò sortire il risultato opposto, facilitando l’ascesa di una nuova dittatura”.

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