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RECENSIONE. Sergio Luzzatto, Dolore e furore, Una storia delle brigate rosse, Einaudi 2023

Per una storia delle Br: cambio di paradigma?

Sergio Luzzatto, Dolore e furore, Una storia delle brigate rosse, Einaudi 2023

Dopo l’omaggio narrativo a Guido Rossa (Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa,Einaudi 2021), ritratto del delegato sindacale comunista ucciso dalle BR nel 1979, scandaglio nella stagione drammatica degli anni Settanta, Luzzatto ha intrapreso la faticosa ricostruzione del contesto in cui matura quel delitto, che a suo dire rappresenta una svolta nella vicenda delle BR, l’inizio del loro declino, sia nel consenso che nel fenomeno del pentitismo e della dissociazione. Uno spartiacque, non solo per la formidabile manifestazione di cordoglio operaio a Genova ai suoi funerali, ma per l’isolamento e la disgregazione del gruppo dirigente delle BR, che conosce un ricambio radicale in direzione di quella stagione della resa dei conti dominata dal deuteragonista di questa storia, Giovanni Senzani.

Genova è la città d’origine dello storico, e alle sue vicende dal luglio Sessanta in poi viene dedicata una puntigliosa ricostruzione antropologica, sociale e urbanistica che aiuta a inquadrare l’emergere dell’antagonismo operaio e studentesco, prima in forma di movimento e poi di consolidamento di gruppi extraparlamentari da cui attinge il reclutamento delle formazioni armate.  Luzzatto ha lavorato sugli archivi di polizia e di tribunale, sugli archivi dei movimenti, ma anche su tante testimonianze raccolte in interviste a distanza di decenni da protagonisti di quegli anni, sia nei movimenti che nei gruppi extraparlamentari e i loro servizi d’ordine che poi nella lotta armata, nonché su rielaborazioni letterarie, da Tabucchi a Sergio Givone.

La novità dell’approccio rispetto a tante storie degli anni Settanta è la ricostruzione fattuale e non dietrologica della nascita dei gruppi armati, contestando il teorema Calogero (condiviso anche da Dalla Chiesa) ma allo stesso tempo prendendo per buona l’ipotesi di un nesso tra cattivi maestri ideologhi ed allievi che ne mettono in pratica le lezioni. E a Genova i cattivi maestri non mancavano, tra Faina, Fenzi e Adamoli, ben insediati nell’università e nell’Ospedale San Martino e con un pubblico ampio di studenti ed allievi operai per diffondere efficacemente il proprio messaggio.

Il sottotitolo “una storia delle Brigate Rosse” forse avrebbe potuto essere sostituito da “per una storia delle Brigate rosse “, nel senso che il focus è su Genova e sulla genesi di quella particolare formazione territoriale, antropologicamente studiata,  reputata significativa per la degenerazione negli anni Ottanta in una logica del colpo su colpo, volta a rispondere più ai nemici diretti responsabili della repressione o della detenzione che alla pretesa di fare i conti con lo Stato: è la parabola discendente che coincide con l’ascesa ai vertici di Giovanni Senzani, il criminologo romagnolo che ha sposato la sorella del letterato filologo Fenzi, l’ideologo assurto anche lui ai vertici dell’organizzazione una volta che Dalla Chiesa ha neutralizzato l’apparato storico di Mario Moretti. Luzzatto non pretende di essere esaustivo, ma offre una metodologia per una mappatura più ampia della vicenda delle BR nelle sue diverse articolazioni territoriali.

Il protagonista del racconto è Riccardo Dura, il brigatista ucciso dall’irruzione dei carabinieri a via Fracchia assieme agli altri compagni, e rimasto momentaneamente non identificato: responsabile dell’esecuzione di Guido Rossa, con tutta probabilità non programmata. Luzzatto ne ricostruisce la tragica breve esistenza, fin dall’adolescenza difficile in convivenza con la madre, che lo condanna a ricoveri al manicomio e reclusione sulla Garaventa, una nave di rieducazione di stazza nel porto di Genova, uno dei tanti istituti di pena e rieducazione minorile che sono l’oggetto di studio di Senzani, ma anche terreno operativo di ben intenzionati psicologi cattolici che guardano a Basaglia e di educatori come Andrea Canevaro, prima leader del movimento scoutistico e poi animatore di una comunità di recupero e pioniere della pedagogia speciale al servizio dei disabili. L’esperienza sulla nave-scuola-riformatorio porterà Dura a imbarcarsi come marittimo, così come verrà definito nel necrologio redatto da Mario Moretti.

Più che la dimensione della fabbrica e della lotta di classe, dalla ricerca di Luzzatto emerge l’importanza della tematica dell’istituzione totale, dei riformatori e delle carceri, nelle motivazioni di tanti componenti del gruppo di fuoco genovese e nelle riflessioni di un altro ideologo, il professor Farina, collaterale alle BR. Ed emergono anche tante figure di “marginali”, difficilmente inquadrabili in un “album di famiglia” e oggetto delle attenzioni e dell’accoglienza di un prete come don Gallo, inviso alle autorità ecclesiastiche ma ben radicato nella predicazione sul territorio di una visione pauperistica del ruolo della Chiesa. A Genova, la lettura radicale del messaggio del Concilio e del Vangelo si affianca ai testi classici del marxismo leninismo: non c’è solo don Gallo, ma una comunità operosa di matrice cristiana di educatori e assistenti sociali operanti nel recupero della devianza, con cui i giovani reclusi della nave Garaventa entrarono in contatto.

Questa interpretazione non ha convinto Mario Moretti, con cui l’autore ha intrecciato un dialogo epistolare nel 2018, sottoponendogli la propria cifra di “un’esistenza inaugurata dalla condizione di marginale, ragazzino siciliano faticosamente trapiantato al Nord, e vittima delle istituzioni totali”. La replica di Moretti è secca, ribadendo la centralità operaia e l’appartenenza del marittimo Dura alla storia dei portuali di Genova.

Al di là della definizione di Dura, divaricata tra l’“operaio marittimo” di Moretti e il “marinaio alla Conrad” di Luzzatto, stavolta non si parla tanto di servizi segreti e di possibili manovratori dell’eversione, ma si fotografano e indagano i protagonisti e le loro parabole, offrendoci un ritratto di gruppo. Non sappiamo se Senzani fosse uomo dei servizi, ma sicuramente che godette per anni di finanziamenti del CNR, quale docente a Siena e titolare di progetti di ricerca mai verificati: sembra che il famigerato SIM delle BR, lo Stato imperialistico delle multinazionali fosse in fin dei conti abbastanza sgangherato da dare la caccia ad un suo beneficiario clientelare.

Il titolo si ispira ad una frase di Rossana Rossanda, con cui l’autore ha avuto uno scambio epistolare nel 2010, a proposito di una sua recensione al libro Per una storia del terrorismo italiano di Angelo Ventura. Nella premessa Luzzatto ribadisce la propria distanza interpretativa a proposito dell’affermazione “le parole non sono pietre”, riguardo al ruolo dei cattivi maestri e del teorema Calogero: “A Genova, intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre”. Reputa comunque di aver raccolto l’invito di Rossanda ad un’analisi di quegli “anni pieni di dolore e furore”. Il suo approccio, enunciato nella Premessa, ispirato allo storico dell’illuminismo e del populismo russo Venturi, “consiste nello studiare la violenza politica dell’Italia negli anni Settanta attraverso la preistoria e la storia di una colonna della Br, e nello studiare la colonna domandandosi chi erano coloro che ne fecero parte, da quali ambienti provenivano, per quali esperienze erano passati. Quali libri avevano letto (o scritto), chi avevano incontrato, amato, odiato, prima di darsi alla lotta armata. E come poi si erano ritrovati lì, nel gruppo clandestino, chiusi in un covo a progettare rapimenti, irruzioni, gambizzazioni, omicidi, per fare la rivoluzione e instaurare il comunismo. Tutto qui”.

Luzzatto non nega che ci siano zone d’ombra su cui indagare, dai servizi segreti alla malavita organizzata. Ma “una volta raccomandata l’importanza di esplorarle con strumenti storiografici”, il libro muove dal convincimento che “la storia delle Br nell’Italia degli anni Settanta vada collocata- anzitutto e soprattutto- entro il quadro dei movimenti collettivi che dell’organizzazione terroristica costituirono il terreno di cultura”.

Insomma un cambio di paradigma della narrazione.

Da apprezzare infine la capacità narrativa e la forza evocativa per cui l’immagine della nave-prigione Garaventa ancorata nel porto e il sogno di fuga degli adolescenti reclusi rimangono scolpiti nella mente del lettore.

 

[Silvia Calamandrei]

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