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Per i 150 anni dell’Unità: Raffaele Liucci, “Spettatori di un naufragio”

Sull’onda lunga delle celebrazioni del 150° dell’Unità Italiana, escono molte opere che ripercorrono in tutto o in parte alcuni momenti particolarmente critici della nostra storia a partire da quella data. Il ruolo e le responsabilità del mondo culturale in tali momenti è oggi molto studiato. Sarà nostra cura segnalare il più possibile gli studi e le ricerche che si occupano di un elemento così importante nella vita civile di un Paese.

Raffaele Liucci

Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale

Torino, Einaudi, 2011

Un elogio del “disimpegno” e dell'”arte della fuga”, in affinità con coloro che si tirano indietro, è la sensazione che si ricava dal libro di Raffaele Liucci “Spettatori di un naufragio”, in cui l’autore ritorna su figure di intellettuali già affrontate in precedenti ricerche, raccogliendole all’insegna del tenersi in disparte nei frangenti delle grandi scelte, dal Pavese della Casa in collina, al Calamandrei del ritiro di Colcello, all'”incoscienza” di Ottieri rifugiato a Chiusi, alla Resistenza in convento di Forcella.

Scritto con garbo, il saggio ci accompagna in un percorso tra gli intellettuali sotto il fascismo e durante la seconda guerra mondiale e la resistenza, simpatetico verso coloro che preferiscono restare nella loro torre d’avorio e non sporcarsi le mani.

Liucci non ha l’irruenza denunciatoria di coloro che sottolineano l’opportunismo dei voltagabbana, o che stigmatizzano le ambiguità nei passaggi degli intellettuali dal fascismo all’antifascismo: tutto sommato la sua simpatia va verso gli apoti prezzoliniani, “coloro che non la bevono” e che non si schierano perché la sanno più lunga.

Viene da domandarsi se questa chiave interpretativa soft non sia frutto della presente stagione, di diffuso disincanto, in cui Il deserto dei Tartari assurge di nuovo a metafora di un’attesa che si fa metafisica. Non c’è stagione migliore per apprezzare il disimpegno e il rifiuto del primato della politica, e non fa differenza per Liucci da quale schieramento ci si defili (sia il fascismo che il comunismo chiedevano agli intellettuali di farsi “organici”).  Ma sull’oggi si leggano le riflessioni di Goffredo Fofi contro il revival del terzaforzismo e della zona grigia e le sue sferzanti osservazioni sul disimpegno della cultura, in “Zone grigie. Conformismo e viltà nell’Italia d’oggi” (Donzelli, Roma 2011).

Il filo “grigio”, perché certo di filo rosso non si può parlare, con cui Liucci  imbastisce il nesso tra i vari personaggi è il distanziamento e la rivalutazione della “tanto bistrattata torre eburnea”. Citando Brancati del Diario romano  del 1947:

“La torre d’avorio. Ne esco continuamente per andare alla Costituente o per leggere gli articoli dei giornali, ma più ne esco, e più ammiro ed invidio coloro che sanno rimanervi dentro, sprangati da tutte le parti.

L’uscire dalla torre d’avorio è per un letterato un vizio perverso come, per alcuni mariti del sud, quello di andare a donne ad una certa ora della sera”.

Ma merita a questo proposito di citare Piero Calamandrei (al cui Diario Liucci attinge abbondantemente) : in una riflessione  formulata negli anni Cinquanta, contemporanea al  famoso appello contro l'”indifferenza alla politica” del suo discorso ai giovani del 1955. E’ una riflessione in cui compara le diverse generazioni di studenti e il loro atteggiamento verso la politica e la responsabilità sociale, che è anche una meditazione di padre che si misura con l’esperienza del figlio prima letterato e poi partigiano:

“Fu la Resistenza a sciogliere nelle coscienze dei giovani i nodi delle loro angoscie: a ridare ai loro studi apertura, respiro e letizia. La lotta partigiana, nella quale si trovarono accanto nelle stesse formazioni giovani di tutte le provenienze sociali, non servì soltanto, come la prima guerra, a ridestare tra essi quel senso di solidarietà umana che il fascismo aveva distrutto, ma servì anche a dimostrare agli intellettuali la fragilità illusoria di certe gerarchie fondate soltanto sulla erudizione libresca e la sterilità di una cultura che non sia prima di tutto umanità, cioè espressione degli ideali di civiltà di tutto un popolo. Nelle formazioni partigiane accadeva spesso che capo fosse un «uomo senza lettere», uscito dall’officina o dai campi, e che gli intellettuali stessero ai suoi ordini, senza sentirsi umiliati, tra i gregari. La Resistenza servì a stabilire la scala dei valori umani: si vide che lo spirito di sacrificio, la fedeltà alla propria idea, la fermezza dinanzi alla tortura ed alla morte non sono un privilegio della cultura”.

E’ questo il Calamandrei più frequentemente citato oggi, anche nelle piazze, più che quello delle tormentate riflessioni diaristiche nei sei mesi del confino di Coltello, dove pur scrive  la sua prefazione a Dei delitti e delle pene del Beccarla, che schiude una nuova stagione nella sua concezione del diritto.

Curiosamente, Liucci non cita mai Isnenghi, che pur agli stessi personaggi ha dedicato densissime riflessioni, riprese nel suo recente Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello spettacolo (in cui il maestro cita ben tre volte Liucci); ma qui abbiamo a che fare con ben altro peso specifico e con una lettura che segna una tappa alta della storiografia italiana.

(Silvia Calamandrei)

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