-------- Leggi dello Stato e Legge di Antigone nel XXI secolo: un intervento di Silvia Calamandrei – Biblioteca Montepulciano Calamandrei
Skip to content Skip to left sidebar Skip to footer

Leggi dello Stato e Legge di Antigone nel XXI secolo: un intervento di Silvia Calamandrei

Proponiamo un articolato intervento della nostra Presidente su una questione la cui attualità purtroppo non viene mai meno, tenuto presso il Liceo statale “Piero Calamandrei” di Napoli

Napoli 24 maggio , Liceo statale “Piero Calamandrei”

 

Sono stata invitata a intervenire in questa scuola qualche mese fa, ed avevamo scelto un titolo che illustrasse l’evoluzione del pensiero del giurista Calamandrei, dalla “fede nel diritto” professata nel 1940 in una conferenza agli universitari cattolici di Firenze, alla invocazione delle leggi di Antigone di fronte ai giudici nel processo a Danilo Dolci del 1956, a Palermo.

Nel frattempo ci sono stati fatti che mi spingono a fare una premessa, per sottolineare l’emozione che provo a intervenire in questi giorni in una scuola, dopo quanto avvenuto a Palermo, in cui una insegnante è stata sospesa e sanzionata per l’elaborato dei suoi allievi che invocava le ragioni dell’umanità, dei diritti umani, rispetto a leggi appena adottate considerate razziste e discriminatorie. Insomma quelle leggi di Antigone che Calamandrei aveva invocato già nel 1946 commentando il processo di Norimberga:

“Le leggi, non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone, le leggi dell'”umanità” che furono fino a ieri una frase di stile relegate nei preamboli delle convenzioni internazionali- queste leggi hanno cominciato ad affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come veri leggi sanzionate: L'”UMANITA'”, DA VAGA ESPRESSIONE RETORICA, HA DATO SEGNO DI  VOLER DIVENTARE UN ORDINAMENTO GIURIDICO”.

Si era nella fase costituente della nostra Repubblica (Calamandrei rappresentante del Partito d’Azione nell’Assemblea eletta il 2 giugno del 1946), e nella fase di redazione di quella Carta delle Nazioni Unite del 1948 che avrebbe affermato i diritti universali dell’uomo, ancora oggi purtroppo a repentaglio in tante parti del mondo.

Non è un caso che la protesta contro queste violazioni si esprima non solo da parte dei giudici, della magistratura, che mette un dubbio la conformità costituzionale di recenti normative e disposizioni adottate in materia di accoglienza e di soccorso ai profughi. Ci sono stati rappresentanti locali che hanno sollevato dubbi sul divieto di iscrizione all’anagrafe e conseguente esclusione da iscrizione alle scuole e assistenza sanitaria. E ci sono state scuole in cui gli allievi hanno azzardato paragoni con disposizioni discriminatorie adottate nel passato, utilizzando la giornata della memoria per riflettere sull’oggi.

Che nelle scuole si discuta è davvero un bene, perché la scuola, come sottolineava Calamandrei , è un organo costituzionale, forse il più importante tra gli organi, in quanto forma i cittadini e la classe dirigente del domani.

Nel discorso del 1950 ad un Convegno di insegnanti, tante volte citato negli ultimi decenni (quello della “profezia” per intendersi, in difesa della scuola pubblica, che fu citato in  tante manifestazioni di insegnanti e studenti), Calamandrei disse:

“La scuola, come la vedo io, è un “organo costituzionale. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo.

Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. Gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita “.

E su questa definizione della scuola Calamandrei ritornerà nel 1956, nella prefazione a Scuola e democrazia, del dirigente scolastico Giovanni Ferretti:

Scuola di cittadinanza

Non si troverà costituzionalista, che passando in rassegna gli organi supremi che dànno alla nostra Costituzione la sua fisionomia caratteristica, senta il bisogno di menzionare tra essi la Scuola: la Scuola resta in secondo piano, nell’ordinamento amministrativo (nell’ordinaria amministrazione, si direbbe), non sale ai vertici dell’ordinamento costituzionale. E tuttavia non c’è dubbio che in una democrazia, se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la Scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale. Il Parlamento consacra in formule legali i diritti del cittadino, la Magistratura e la Corte costituzionale difendono e garantiscono questi diritti; la coscienza dei cittadini è la creazione della Scuola; dalla scuola dipende come sarà domani il Parlamento, come funzionerà domani la Magistratura: cioè quale sarà la coscienza e la competenza di quegli uomini che saranno domani i legislatori, i governanti e i giudici del nostro paese. La classe politica che domani detterà le leggi o amministrerà la giustizia, esce dalla Scuola: tale sarà quale la scuola sarà riuscita a formarla.

Di qui l’emozione che provo a parlare in una scuola, a dei giovani, che Calamandrei invitava a non fuggire dalla politica, ad assumere le proprie responsabilità di cittadini, a prendere nelle loro mani la Costituzione, a metterci il combustibile, per evitare che rimanesse lettera morta.

Ed è per questo che il Centro Calamandrei di Jesi, animato da Gianfranco Berti,  ha voluto produrre un breve filmato rivolto agli studenti, ispirato all’utopia di Calamandrei, per invitarli a riflettere sull’oggi e sulle ingiustizie che continuano ad essere perpetrate.

I giovani sanno bene cosa succede oggi, gli affogati nel Mediterraneo, i porti chiusi ai profughi, i rifugiati degradati a clandestini, i soccioritori che rischiani di essere incriminati o multati,  e non hanno difficoltà a capire il gesto provocatorio del parroco di Genova che chiuse la chiesa per Natale, quando sembra che “pietà l’è morta”.

E gli studenti  hanno probabilmente sentito recitare o letto in rete il discorso di Calamandrei sulla Costituzione, nata sulle montagne dove combattevano i partigiani, o l’epigrafe ad ignominia contro Kesselring  che si chiude con il motto “Ora e sempre Resistenza”.

Forse meno nota la vicenda di Danilo Dolci, evocata bel filmato, il sociologo ed educatore che negli anni cinquanta si batteva per il lavoro e contro le mafie in Sicilia, ispirandosi ai metodi non violenti di Gandhi e dovette affrontare nel 1956 un processo per aver violato norme di sicurezza ereditate dal fascismo: Danilo e altri volontari, assieme ai disoccupati di Partinico, si misero a costruire una strada, una “trazzera”, improvvisando uno sciopero alla rovescia per dimostrare che il diritto al lavoro, previsto all’articolo 4 della Carta del 1948, poteva essere attuato. Calamandrei fu tra gli avvocati difensori e pronunciò una celebre arringa, invocando di fronte ai giudici le leggi di Antigone, ormai iscritte nella Costituzione italiana.

Il messaggio sotteso al filmato è che ognuno di noi può disobbedire alle leggi ingiuste, abusivamente adottate, nel nome di una superiore giustizia, sancita dai principi fondamentali della prima parte della nostra Costituzione.

In realtà le immagini e le parole del filmato non hanno bisogno di tante spiegazioni: parlano al nostro cuore, ai nostri sentimenti di giustizia, di solidarietà, di rispetto degli altri, al nostro amore per la libertà.

La libertà è come l’aria, diceva Calamandrei:

” ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai.

E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica”.

Il giurista Calamandrei, il costituente, il teorico della legalità contro la sopraffazione e gli abusi, ha sempre avuto come interlocutori privilegiati i giovani, fin da quando scriveva favole e poemetti per bambini sul Giornalino della domenica di Vamba, agli inizi del Novecento. Negli anni del fascismo si dedicava ad educare i suoi allievi all’Università, molti dei quali si sarebbero battuti nella resistenza fiorentina e agli studenti di diritto si indirizzava nella conferenza del gennaio 1940, ritrovata tra le sue carte, nel momento più oscuro della perdita di ogni certezza, con la violazione sistematica del diritto perpetrata dalle truppe naziste che invadono l’Europa.

Calamandrei incoraggiava i giovani a non perdere la fede nel diritto, nella giustizia, e citava quella storiella sulla nave nella tempesta le cui sorti non possono essere ignorate dai passeggeri. Erano giorni in cui il diritto veniva imposto dai vincitori con la forza delle armi e la giustizia sembrava ciò che giovava al più forte e Calamandrei si interrogava:

“Ma siamo poi nel vero a difendere la legalità?É proprio vero che per poter riprendere il cammino verso la giustizia sociale occorre prima ricostruire lo strumento della legalità e della libertà? Siamo noi i precursori dell’avvenire o i conservatori di un passato in dissoluzione?”.

Contro la teoria del diritto libero che si andava affermando nella Germania nazista e nella Russia sovietica, della giustizia del caso per caso, della subordinazione della giustizia alla politica, Calamandrei sentiva la necessità di battersi per la certezza del diritto, per l’astrattezza della legge uguale per tutti, della tradizione del diritto romano che gli sembrava difesa da quel Guardasigilli Grandi con cui collaborava alla stesura del Codice di procedura civile.

In questa fase del suo pensiero, argomentata nella conferenza fiorentina e nel saggio Sul nuovo processo civile e la scienza giuridica nel 1941, a Calamandrei non importa tanto avere leggi giuste, quanto assicurare che “l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge non è una beffa”. L’astrattezza delle leggi “è in realtà la formula logica della solidarietà e della reciprocità umana, che è la più efficace forza di coesione della società e la condizione essenziale d’ogni civiltà vera”. Il diritto è altruismo, “anche se inteso come pura forma, indipendentemente dalla bontà del suo contenuto”.

 Secondo Calamandrei, “Nel principio della legalità c’è il riconoscimento della uguale dignità morale di tutti gli uomini, nell’osservanza individuale della legge c’è la garanzia della pace e della libertà di ognuno”. Ed un raggio di sole penetra dall’alto, come dalla lanterna di una cupola, a illuminare l’operato del “procedurista”: “la coscienza di poter contribuire colle sue teorie a rendere più agevole agli uomini assetati di giustizia l’appagamento di questa loro sete”.

È Socrate il suo punto di riferimento, nella trincea di salvaguardia della certezza del diritto negli anni oscuri della guerra e della dittatura. È Socrate che accetta volentieri la morte “per lasciare agli uomini l’insegnamento ancora vivo secondo il quale non può sussistere Stato e civiltà là dove i patti giurati non son mantenuti, là dove le leggi liberamente accettate non sono, anche a costo dell’estremo sacrificio, rispettate e difese”.

Ma traversati gli anni di ferro e di fuoco della guerra civile, e con  la consapevolezza maturata degli orrori delle dittature e della guerra, meditando nell’esilio di Colcello sul Beccaria e sulla legalità da ricostruire, Calamandrei conoscerà una evoluzione del suo pensiero giuridico, trasformandosi da processualista civile in costituzionalista.

Nell’immediato dopoguerra condividerà con Borgese un progetto di costituzione mondiale che fondi su nuove basi la convivenza tra i popoli e riverserà nell’Assemblea costituente il suo approccio di combinazione dei diritti civili e dei diritti sociali.  È la legalità in democrazia, quando la certezza del diritto promana dalla sovranità popolare, quando la legge, come sintetizza il suo allievo Paolo Barile “anziché in posizione eteronoma di un’autorità posta al di sopra dei sudditi, è espressione di autonomia scaturente dalla partecipazione di tutti i cittadini alla formazione di essa (e in questo principio è l’essenza dello stato democratico)”.  La legge non è più imposta da un potere tirannico, ma autodisciplina voluta.

Avendo incorporato nella Costituzione i diritti fondamentali di cittadinanza, le leggi di Antigone non dovrebbero essere più in contraddizione con l’osservanza della legge.

Ma il processo di attuazione della Costituzione sarà di lunga durata, e una dicotomia continuerà a sussistere: la permanenza delle normative fasciste negli anni Cinquanta e la non attuazione del dettato costituzionale farà sì che Calamandrei debba invocare le leggi di Antigone per difendere Danilo Dolci che si batte per il diritto al lavoro, sancito all’articolo 4.

Lasciatemi leggere qualche passo di quell’arringa, che cita Antigone e torna a citare Socrate:

Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.

È tradotto in cruda prosa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire.

Nella traduzione di oggi, Danilo dice: “per noi la vera legge è la Costituzione democratica”; il commissario Di Giorgi risponde: “per noi l’unica legge è il testo unico di pubblica sicurezza del tempo fascista”.

Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte”. (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)

Chi dei due interlocutori ha ragione?

Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.

Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?

Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.

E qui affiora il secondo punto sul quale io mi trovo in dissidio colle premesse affermate dal P.M.: quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle “correnti di pensiero”, che i testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in quest’aula.

Ma che cosa sono le leggi, illustre rappresentante del P.M., se non, esse stesse, correnti di pensiero? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.

E invece le leggi son vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto.

Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, spregevoli giuochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite colla nostra volontà.

Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a sé il tempo per vederle compiute!

Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si ripresentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di poter costruire pacificamente l’avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento sociale ad un altro, durante i quali l’altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes, che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del diritto comune.

Anche oggi l’Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione.

La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunciatrici del futuro: “pari dignità sociale”; “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”; “Repubblica fondata sul lavoro”; “diritto al lavoro”; “condizioni che rendano effettivo questo diritto”; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”….

Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno udito queste promesse, e che vi hanno creduto e che ci si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possano ora esser condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente e senza far male a nessuno, che queste promesse siano adempiute come la legge comanda?

Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall’alto. Affinché la legalità discenda dai codici nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo rispetta, perché esso stesso le ha volute così.

Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone vive, come di persone di conoscenza, “le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano”. Perché le leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano, come quelle di Socrate, le “nostre” leggi.

Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta le leggi perché ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!

Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.

Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.

E Calamandrei concludeva:

Voi dovete aiutarci, signori Giudici, a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e tanto dolore; voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.

Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una Costituzione che promette libertà e giustizia.

Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia e pari dignità!

Invocava dunque  norme più alte, sovra-ordinate, alla luce delle quali la legislazione vigente doveva essere interpretata e verificata.

Sarà poi la Corte costituzionale, entrata in funzione nel 1956, e salutata da Calamandrei con la formula la Costituzione si è mossa a consentire progressivamente l’adeguamento delle norme alla luce della coerenza costituzionale.

Ma non c’era solo il pregresso, l’eredità del fascismo da verificare: anche le nuove norme adottate dal legislativo o dall’esecutivo devono subire il controllo di conformità, per evitare che siano violate le libertà e i principi fondamentali.

È una partita che si continua a giocare, e che non riguarda solo la magistratura;: riguarda tutti i cittadini. Assicurarci che le leggi che si adottano corrispondano ai contenuti della nostra Costituzione, conquistata con la guerra di Liberazione.

Silvia Calamandrei

 

 

 

 

 

« Torna indietro