Critica di una storia”: “M, l’uomo della Provvidenza” di Antonio Scurati
Antonio Scurati
M, L’uomo della provvidenza
Milano, Bompiani, 2020
Ho ostinatamente attraversato l’intero corpus del nuovo Scurati, nonostante tanti amici mi dicessero “ma chi te lo fa fare? Ma occupandomi di una biblioteca e delle letture promosse perfino nei supermercati COOP, dove Scurati viene distribuito in fascicoli, nonché delle posizioni in classifica, volevo condividere l’esperienza con i tanti italiani che si sono comprati il secondo tomo di questo “romanzo”- così lo definisce l’autore- su Mussolini, dopo che il primo è stato addirittura premiato con lo Strega. Giunta al termine mi domando quanti riusciranno veramente a leggere questa costruzione farraginosa e a ricavarne frutto, sormontando anche una certa noia.
Avevo già espresso le mie riserve sul primo tomo, per una fascinazione eccessiva dell’attivismo e del successo del protagonista emergente nella crisi del primo dopoguerra, oltre che per una serie di errori storici che erano stati rimproverati all’autore senza scalfirne la supponenza: è opera letteraria, non storica, è fiction, e qualche errore ci può stare. Ma la costruzione romanzesca alternata a citazioni da documenti scelti dall’autore ha una pretesa di verità che ben si accompagnerebbe a qualche indicazione delle fonti e ai criteri della loro selezione. Come fonti soprattutto rapporti di polizia, intercettazioni telefoniche, ritagli di articoli di giornale.
La stessa metodologia è applicata in questo secondo tomo, che si apre in toni splatter sull’ulcera duodenale di Mussolini, le sue feci ed il suo vomito, forse postumi allo stress dell’assassinio di Matteotti, rivendicato nell’aula del Parlamento. Scurati insiste sulla corporeità del Duce, come del resto hanno già rilevato altri storici, autentici, e si attarda sui movimenti dei suoi intestini e sulle sue prodezze sessuali, nonché sulle esibizioni sportive e da protagonista a torso nudo della battaglia del grano. In contrappunto la pinguedine di Turati, il pallore di Giolitti, la fiacchezza degli oppositori aventiniani, destinati alla sconfitta e all’esilio. Non una parola su figure coraggiose come Pertini o i Rosselli, che organizzano la fuga di Turati. Non una parola sul “Non mollare” e le manifestazioni fiorentine nell’anniversario di Matteotti quando si raccontano gli assalti delle squadracce nel 1925. E tante notazioni sulla lunaticità e i disturbi mentali degli attentatori: Violet Gibson è “figlia degenere di Lord”, con “sguardo spiritato, capelli bianchi spettinati”, il povero Anteo Zamboni, “di scarsa intelligenza”, è soprannominato dagli amici “il patata”. Il Manifesto degli intellettuali antifascisti, pubblicato da Amendola e scritto da Croce viene liquidato come velleitario e sintomo di impotenza giacché nel nuovo secolo “il fatto vale più del libro”. Nelle parti romanzate l’autore sembra immedesimarsi nei pensieri del Duce, in una sorta di transfert: “meglio lasciare che gli intellettuali cuociano nel loro insipido brodo”. Anche nel linguaggio, è spesso Mussolini che si racconta.
L’immedesimazione nei personaggi e le citazioni selezionate ci fanno attraversare il consolidarsi della dittatura, le sue realizzazioni e la sua liquidazione dello Statuto albertino e del sistema elettorale democratico come una marcia trionfale, turbata solo dai dissidi interni tra le varie fazioni, ai quali Augusto Turati tenta invano di porre riparo in un’opera di normalizzazione del Partito nazionale fascista. Saranno poi i Farinacci e gli Starace a prevalere e Mussolini non muoverà un dito per difendere Turati dalle accuse infamanti che gli vengono confezionate contro e che ne segnano la rovina.
La narrazione è tutta centrata sui protagonisti politici e militari, sui gerarchi e i capi fazione, sulle mogli e le amanti dei capi: non c’è mai il paese reale. Nell’alternanza capitoli specifici, sempre intitolati ad un personaggio, sono dedicati alla guerra di Libia, con De Bono, Badoglio e Rodolfo Graziani ad intestarseli. Per fortuna si menzionano l’iprite e i campi di concentramento in questo susseguirsi di campagne militari nel deserto africano e una parola di verità ci viene da Omar al-Mukhtàr, il combattente sconfitto, al momento di salire sulla forca: “E dopo la mia morte, la ribellione contro l’iniquità continuerà”:
Tra i personaggi anche l’usciere maggiordomo del Duce, Quinto Navarra, che dà il titolo ad alcuni capitoli in cui lo sguardo del domestico intravvede l’intimità e le debolezze del dittatore. È lui che blocca sulla porta Margherita Sarfatti ormai indesiderata, è lui che introduce i visitatori osservandone la piaggeria e le meschinità. Il grand’uomo visto dal maggiordomo: momenti di verità…visti dal buco della serratura.
Il romanzo si chiude con le demolizioni del centro di Roma, sventrato per creare la via dell’Impero: quelle demolizioni dipinte da Mario Mafai, ferite inferte nel corpo della città eterna per predisporla a celebrare l’Impero.
(Silvia Calamandrei)