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IL MISTERO DELLE OCHE: una coraggiosa ipotesi del’egittologo poliziano Francesco Tiradritti

Il nostro concittadino Francesco Tiradritti, egittologo di livello internazionale, ha avanzato una seria ipotesi sul celeberrimo affresco dell’antico Egitto conosciuto come “Le oche di Meidum”,  normalmente fatto risalire tra il 27° e il 25° secolo a.C. L’ipotesi è che si tratti di un falso, o comunque di una ampia e sostanziale ridipintura di un originale, dovuta all’egittologo italiano Luigi Vassalli (1812-1887).  Per la discussione sull’argomento rimandiamo alla sottoriportata intervista, pubblicata su “Il giornale dell’arte”. Come Istituzione culturale cittadina ci è sembrato opportuno notare due cose.  Primo: la correttezza e anche la preparazione scientifica del nostro concittadino, che non è partito da posizioni preconcette ma anzi dall’osservazione puramente obbiettiva di un problema (l’identificazione delle specie di oche), a cui propone una soluzione certamente sconvolgente ma a cui è giunto attraverso un cammino  razionale e privo di coinvolgimenti emotivi (che anzi l’avrebbero portato a non discutere l’attribuzione tradizionale), il che testimonia, appunto, la capacità dello scienziato preparato, che cerca di farsi guidare dall’osservazione della realtà e anche dalle proprie intuizioni, ma riducendo al minimo l’approccio, diciamo così, “sentimentale”; secondo: la cittadina di Montepulciano evidentemente è ancora in grado, come in passato, di offrire ai suoi giovani un clima culturale propizio per una autentica crescita (Francesco Tiradritti non è l’unico “moderno” che si è professionalmente fatto apprezzare ad alti livelli), ma purtroppo, sempre come in passato, le sue dimensioni demografiche ed economiche  impongono poi una “fuga di cervelli”, ahimè in linea oggi con l’andamento nazionale: cervelli che rimangono terribilmente affezionati al luogo della loro crescita (mai percepito come un limitante “natio borgo selvaggio”, e di cui anzi vanno orgogliosi) ma che in esso non si sono potuti realizzare. Una situazione già lamentata da Silvano Cocconi nel ‘600: “…bisogna trapiantare la gioventù, che ivi nasce, ad altre parti del Mondo, perché ritenuta in casa, è manifestamente perduta. La nostra città fu, e sarà sempre madre d’ingegni elevatissimi, ma non ha latte per nutrirli.” (1). La nostra Istituzione può fare poco per cambiare direttamente le possibilità economiche della cittadina: può, e deve fare moltissimo, perché chi vi si trova abbia le condizioni migliori per un libero e aperto sviluppo personale e culturale.

(Duccio Pasqui)

(1. Silvano Cocconi, Istoria de’ santi e famiglie di Montepulciano, ms. conservato presso la Biblioteca Comunale di Montepulciano, parte I c. 2 v.)

 

In esclusiva per il Giornale dell’Arte una nuova ipotesi per le Oche di Meidum

Capolavoro o tributo d’amore? In dubbio l’autenticità del celebre dipinto egizio che per l’egittologo Francesco Tiradritti sarebbe una contraffazione ottocentesca

Il Cairo (Egitto).

Quando un’opera d’arte è considerata da decenni un capolavoro si ha la tendenza ad accettare la sua veridicità senza più metterla in discussione. Fidandosi di quanto è stato già detto da altri si abbandona quell’atteggiamento di vigile critica che dovrebbe invece sempre caratterizzare ogni ricerca scientifica. Il risultato sono una serie di considerazioni non derivanti da un’analisi personale ma da una rielaborazione di quanto già detto da altri. Accettando giudizi resi autorevoli dal tempo trascorso si minimizzano senza accorgersene anomalie che dovrebbero invece indurre al riesame dell’opera. Deviazioni da regole e canoni artistici, anacronismi e persino difetti vengono invece spiegati come eccezioni che, proprio in quanto tali, rendono un’opera unica e assoluta. Mettere in discussione l’autenticità di un’opera che da anni è considerata un capolavoro risulta estremamente difficile. Apparirebbe impresa impossibile per reperti, come quelli archeologici per i quali è nota la provenienza da scavo. A ben vedere, però, in mancanza di una prova documentaria come la fotografia (che però può essere falsificata), le informazioni relative all’origine di un reperto sono basate soltanto sull’asserzione dello scopritore. Accettarle per vere corrisponde a un atto di fede che, nella stragrande maggioranza dei casi, risulta giustificato dall’onestà dello studioso o dell’archeologo in questione.
Quando una serie di circostanze, come mi è successo, portano a dubitare dell’autenticità di un manufatto che si è considerato un capolavoro tale sin dai tempi dei primi studi universitari e si è più volte citato nelle proprie opere, il primo sentimento che si prova è perciò quello di doloroso stupore. Da quel momento in poi si prosegue analizzando il problema con la speranza, da un lato, di vedere dissipati i propri timori e, dall’altro, con l’incredulità di trovarsi di fronte a un dato nuovo di cui nessuno si è mai accorto prima d’ora. È accorgersi di avere guardato senza davvero vedere o, meglio, di avere osservato attraverso gli occhi di altri. Man mano che con il proseguire delle ricerche si ha sempre più la certezza dell’evidenza della contraffazione dovere ammettere di avere sbagliato e di avere perseverato nel corso di anni provoca una sentimento di forte imbarazzo ed è soltanto a malincuore (e dopo molto tempo) che si riesce ad accettare il proprio errore. Mi trovo a scrivere fresco reduce di quest’esperienza e devo ammettere che è tutt’altro che piacevole.

Capolavoro dell’arte egizia

Circa un anno fa ho cominciato a nutrire dubbi su uno dei capolavori dell’arte egizia più famosi, probabilmente l’opera che prediligevo. Il fascino che essa a esercitato su di me nel corso degli anni è stato tale che sono arrivato persino a considerarla una sorta di manifesto dell’arte pittorica egizia. Sto parlando delle celeberrime «Oche di Meidum» che, con i dovuti limiti imposti da ogni paragone, poteva essere ritenuta stare all’arte egizia come la Gioconda sta a quella occidentale.
Le «Oche» di Meidum sono un frammento di intonaco delle dimensioni di cm 172 per cm 27 circa, oggi conservato al Museo Egizio del Cairo (CG 1742), sul quale sono dipinte, per l’appunto, tre coppie di oche, tre rivolte a destra e tre a sinistra. Secondo le scarse informazioni di scavo la pittura proviene dalla decorazione della cappella che il nobile Nefermaat aveva dedicato alla sposa Atet all’interno del proprio monumento funerario (XXVI secolo a.C.) nella località di Meidum. Il resoconto del recupero delle «Oche» è basato sull’unica testimonianza, pubblicata a quindici anni di distanza dalla scoperta (1871), resa da Albert Daninos (1845-1925), un egiziano di origini algerine che lavorava come ispettore del Servizio delle Antichità. Le «Oche» furono subito esposte al pubblico nel Museo di Bulaq (denominazione ottocentesca della collezione egizia cairota) suscitando subito l’ammirazione dei contemporanei. Da allora la loro fama è cresciuta a tal punto che sono pochi i libri di storia dell’arte egizia in cui non ne sia riportata almeno la foto.

Dubbi sull’autenticità

Ho cominciato a nutrire dubbi sull’autenticità dell’opera poco meno di un anno fa, quando mi sono posto il problema di identificare a che specie appartenessero le sei oche riprodotte. Fino ad allora mi ero sempre accontentato di sapere che rappresentavano tre coppie diverse. Ho così appurato che le due all’estremità sono oche granaiole(Anserfabalis), le due centrali rivolte a sinistra oche lombardelle(Anseralbifrons) e quelle rivolte a destra oche collorosso (Brantaruficollis).
Né le oche granaiole (che qualcuno identifica però con la più comune oca selvatica) né le oche collorosso risultano attestate in altre opere dell’arte egizia. Questa incongruenza mi ha colpito e ha risvegliato in me il ricordo di altre anomalie che, in passato, avevo avuto modo di rilevare di persona o che altri mi avevano fatto notare. Come quando avevo organizzato la mostra «Kemet: alle sorgenti del tempo» a Ravenna nel 1998 e Nicola Samorì, il giovane artista che si occupava di decorare le pareti in legno dell’allestimento con immagini dipinte, mi aveva fatto notare che le oche all’estremità avevano proporzioni pari alla coppia che le seguiva. Gliene avevo chiesta spiegazione e lui mi aveva riposto che era un espediente comunemente utilizzato nella decorazione piana per attribuire bilanciamento alla figurazione. O come quando, nel 2007, trovandomi a esaminare il dipinto per il mio libro sulla pittura murale egizia, mi ero reso conto che le tonalità dei colori (beige e vinaccia soprattutto) del piumaggio e le pennellate non avevano riscontri in altre opere egizie. Avevo spiegato queste evidenti incongruenze con il fatto di trovarmi di fronte a un capolavoro che, in quanto tale, era naturale dovesse possedere caratteristiche uniche. L’eccessiva sproporzione delle oche esterne era giustificabile come un espediente volto ad attribuire profondità e prospettiva all’opera che si trovava suddivisa in due piani distinti. L’unicità dei colori e delle pennellate utilizzate erano invece ovviamente piegabili nell’incomparabile perizia dell’anonimo maestro che aveva eseguito l’opera. La scoperta che quattro delle sei oche rappresentassero specie non altrove attestate nell’arte egizia mi aveva fatto tornare alla mente queste incongruenze. Stavolta non riuscivo però a trovare una spiegazione plausibile, soprattutto davanti all’evidenza che l’oca granaiola (Anseralbifrons) e l’oca collorosso (Brantaruficollis) sono specie diffuse a latitudini molto elevate (taiga e tundra) e non si spingono a svernare più a sud dell’Europa meridionale. Anche quest’ennesima stranezza potrebbe essere spiegata con l’estinzione delle due specie in Egitto, ma l’unicità della loro attestazione fa assumere a quest’informazione una diversa connotazione.

Altre anomalie

Sono perciò tornato a esaminare le «Oche» con occhi diversi. Con grande gentilezza e disponibilità il fotografo Sandro Vannini mi ha mostrato immagini del dipinto di ottima qualità e ho così potuto riscontrarvi altre stranezze. Come la linea orizzontale in alto a sinistra, visibile sotto la pittura dello sfondo, o il tipo di stesura del colore possibile soltanto con l’utilizzo di pennelli moderni, oppure l’incavo troppo arcuato dei piedi dei cacciatori che, secondo le ricostruzioni più accreditate, dovevano trovarsi nella scena dipinta al di sopra delle oche.
Alla fine del gennaio scorso sono tornato a esaminare il dipinto originale al Museo Egizio del Cairo e ho così potuto appurare che la tavolozza di colori utilizzata per dipingere le «Oche» non soltanto è anomala nel contesto dell’arte egizia, ma lo risulta anche paragonandola con un secondo frammento di intonaco sul quale è dipinta un’iscrizione geroglifica (Museo Egizio del Cairo, CG 1743) sempre proveniente dalla cappella di Atet. In occasione di quella visita ero accompagnato da mia moglie Olivia Mosso, restauratrice, che mi ha fatto notare come dal punto di vista tecnico vi fossero incongruenze di non poco conto (stesura e qualità dei pigmenti usati) e che lo stato di conservazione della superficie del dipinto appare anomalo e diverso rispetto al frammento CG 1743. Tutte queste anomalie mettono in serio dubbio l’autenticità delle Oche di Meidum e rendono assai verosimile l’ipotesi che il dipinto sia il risultato di una contraffazione di epoca moderna. Le scarne informazioni sulla loro scoperta sembrerebbero anche fornire la soluzione su chi possa esserne stato l’autore.

Luigi Vassalli pittore

Il resoconto di Albert Daninos afferma che le «Oche» furono staccate dalla parete sulla quale erano state dipinte dal milanese Luigi Vassalli (1812-1887) patriota, egittologo, conservatore del Museo di Bulaq ma soprattutto pittore.
I suoi manoscritti si trovano a Milano e quando lavoravo alla collezione egizia di quella, l’allora direttrice della biblioteca Rina La Guardia, li aveva sottoposti alla mia attenzione. Li avevamo studiati e pubblicati senza mai avere trovato menzione delle «Oche». La cosa risulta abbastanza strana tenendo soprattutto conto del fatto che Vassalli dava ampio risalto alle proprie imprese al punto da menzionare nella sua corrispondenza la scoperta di quella che lui riteneva una tomba principesca anche a molti anni di distanza. Perché non si trova invece traccia delle «Oche»? Se si tiene conto che Vassalli aveva seguito i corsi di pittura all’Accademia di Brera e che Daninos lo indica come l’autore del distacco delle «Oche», viene spontaneo pensare che tutte le anomalie riscontrabili oggi sul dipinto dipendano dal fatto che la paternità dell’opera sia da attribuire a lui e non a un anonimo e (troppo) talentuoso artista vissuto 4500 anni fa. Rimane da capire se Vassalli si sia limitato a ridipingere e completare un soggetto preesistente, come era in uso nell’Ottocento e come lui stesso ha fatto su altre opere del Cairo, oppure abbia eseguito un’opera del tutto nuova, cosa che io ritengo assolutamente più probabile. A questo problema potranno dare una più precisa e definitiva risposta analisi scientifiche ulteriori.

Il cestino e l’avvoltoio

In un terzo frammento di intonaco (Museo Egizio del Cairo, CG 1744), anch’esso proveniente dalla cappella di Atet, vi è forse la risposta al motivo per il quale Vassalli avrebbe dipinto le «Oche». Vi sono riprodotti due geroglifici: un cestino e un avvoltoio. Il primo compare anche sul frammento di intonaco CG 1743 dove però il segno è di dimensioni diverse e il manico ed è dipinto al contrario. Questo particolare induce a ritenere anche CG 1744 il risultato di una contraffazione. Otteniamo così due segni geroglifici che corrispondono ad altrettante lettere: «K/G» per il cestino, «A» invece per l’avvoltoio. Viene spontaneo pensare a un monogramma. Vassalli sposò in seconde nozze Gagliati Angiola le iniziali del cui nome corrisponderebbero  per l’appunto ai suoni rappresentati dai due geroglifici. E se le «Oche» di Meidum non fossero altro che un romantico tributo dedicato da Vassalli alla sua sposa?

 

Francesco Tiradritti

 

Giornale dell’Arte n. 352, Aprile 2015

 

 

 

 

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