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Due bilanci di storia patria su cui riflettere: Leopardi/Cordero e Rea

Giacomo Leopardi/Franco Cordero,

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani

Torino,  Bollati Boringhieri, 2011

 

Ermanno Rea

La fabbrica dell’obbedienza

Milano, Feltrinelli, 2011

 

In tempi di bilanci di storia patria, vale la pena leggere due excursus sconsolati sul carattere e i costumi degli italiani, quello di Franco Cordero ispirato all’operetta di Leopardi, quello di Ermanno Rea alla figura di Giordano Bruno.

Caustico e pessimista nel solco di Leopardi, nelle sue duecento pagine di “pensieri d’un italiano d’oggi” Cordero spazia da Leopardi a Berlusconi, dandoci ritratti fulminanti di una lunga serie di intellettuali e politici, voltagabbana e superficiali, vanesi e corruttibili, vigliacchi ed opportunisti, che non fanno che peggiorare le sorti della “malata”: l’Italia, plasmata dalla Controriforma.

E alla Controriforma si rifà anche Rea, per spiegarsi “il lato oscuro e complice degli italiani”; quella Controriforma che ha spento l’età dell’oro dell’Umanesino e del Rinascimento, e che con la condanna di Giordano Bruno e del libero pensiero e la codificazione del rito della confessione plasma il carattere servile degli italiani, interponendo l’autorità della chiesa tra noi e la nostra coscienza. Non sono argomenti nuovi, e Rea attinge abbondantemente a Bertrando Spaventa, ad Adriano Prosperi, ad Eugenio Garin e ad Antonio Gramsci. La sua è una meditazione accorata, scritta al ritorno da una serie di lezioni nel Vermont, e lui stesso la definisce “lo sfogo di un cittadino con i nervi a fior di pelle”. E’ una rassegna dei momenti più neri, ma la sua sensazione è che “nella sua storia recente l’Italia non è mai apparsa così malridotta, neppure nei suoi momenti più tragici e perversi”. Pesa nell’accoramento di Rea anche la sorte del Mezzogiorno e la tragedia della città di Napoli, di cui aveva descritto il declino industriale nella Dismissione.

Come via d’uscita si rifà al pensiero ambientalista e all’ipotesi di trasformare in vantaggio la debolezza industriale del Sud, giocandosi la “carta della solitudine” e dell’autonomia amministrativa dal resto d’Italia: tramontata la speranza industrialista, imboccare la strada della “sobrietà”, senza alcuna nostalgia neoborbonica.

Anche Cordero, nella sua lucida disperazione, chiude con un messaggio di impegno fattivo, pur senza illusioni. Se il mondo, come scrive Leopardi, è “società malavitosa” dobbiamo decidere tra la vita attiva e l’eremo:

“Non costa niente fingere un futuro indeterminato, lavorando meglio che possiamo, anche se tutto risulta prestabilito nella causalità universale, inclusi Big Bang e collasso finale. Il disincanto stimola meccanismi volitivi: non foss’altro, è questione estetica; abitiamo un mondo sordido; ritocchiamolo in meglio“.

(Silvia Calamandrei)

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