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Recensioni

RECENSIONE. Chiara Colombini, Storia passionale della guerra partigiana, Laterza 2023

Chiara Colombini, Storia passionale della guerra partigiana, Laterza 2023

Con acribia e contando su autorevoli consulenti come Giovanni De Luna, Giuseppe  Filippetta e Aldo Agosti, menzionati nei ringraziamenti finali per gli scambi intercorsi nell’elaborazione del progetto, Chiara Colombini prosegue nel suo lavoro sulla resistenza, prima indagata nella sua versione piemontese, poi nel manuale divulgativo della serie Fact-checking curata da Carlo Greppi per rispondere agli interrogativi più frequenti (Ma i parigiani però), ed ora esplorata sul versante dei sentimenti, o meglio delle passioni che hanno animato i resistenti. E l’orizzonte si allarga alle individualità che scelsero di combattere e ai loro dilemmi interiori, sui monti e nelle città, nelle diverse declinazioni che la resistenza assunse nella penisola.

Perché diverse sono le esperienze nella frastagliata guerra civile, a seconda della formazione, dell’ambiente d’origine e della fede religiosa, che modulano il vissuto quotidiano dei combattenti, uomini e donne colti in quel contesto attraverso diari e carteggi coevi. Chiara Colombini ha trascelto materiali contemporanei, evitando le ricostruzioni a posteriori, inficiate dai bilanci, dalle delusioni o dai rimpianti, e ci fa rivivere i sentimenti dei protagonisti in presa diretta. L’autrice dichiara di aver voluto “avvicinarsi ai protagonisti con una chiave di comprensione quasi viscerale” e si muove nel solco della lezione di Claudio Pavone “che ha dato un rilievo nuovo e centrale agli individui e alla loro soggettività.

L’autrice si rende conto del limite delle sue fonti scritte: “affidarsi a diari e carteggi porta con sé anche un limite di natura sociale: permettono infatti di avvicinarsi alle vite di chi ha maggiore dimestichezza con la scrittura” e dunque di concentrarsi su figure di intellettuali e studenti. Eppure è convinta di trovare in quelle scritture coeve testimonianza di una scelta individuale che si coniuga con motivazioni più collettive:

“In fondo, che le aspirazioni e i sentimenti più privati coesistano con motivazioni e passioni rivolte a ciò che è pubblico e riguarda tutti è inevitabile. Perché la Resistenza è di certo un’esperienza al massimo grado politica, che guarda al futuro e alla costruzione di una nuova società, e di certo è un impegno soprattutto collettivo, dal momento che al di fuori di un legame ideale e organizzativo con gli altri non è materialmente possibile, ma al tempo stesso ha un’ineliminabile radice individuale, una «dimensione essenzialmente solitaria».

Paura, coraggio, dolore, disperazione, amore e voglia di vivere, sono tanti i sentimenti che sono analizzati, e che ci rendono quei combattenti più vicini.

Tra i testi esplorati c’è il diario di Franco Calamandrei, mio padre, custodito ora all’Archivio del Senato ed edito con il titolo La vita indivisibile (Giunti 1998). È indubbio che quella scrittura in contemporanea facesse scattare in Franco l’impulso a tornare sopra quegli anni giovanili con la consapevolezza acquisita a posteriori, in un progetto di romanzo rimasto incompiuto che è stato edito nel volume Le occasioni di vivere (La Nuova Italia 1995). E la forza di quelle pagine, apprezzate da Romano Bilenchi, è valsa anche alla geniale rielaborazione che ne ha fatto Davide Orecchio per il suo Storia aperta (Bompiani 2021). Sono felice che quelle pagine giovanili continuino a circolare e a nutrire riflessioni, così come sono contenta che Chiara Colombini abbia potuto attingere alle carte messe a disposizione da Piero Battaglia e Franca Gigliani dagli archivi privati del grande storico Roberto Battaglia (stampato in proprio): perché quella documentazione coeva della Divisione Lunense completa la sua testimonianza dell’immediato dopoguerra in Un uomo, un partigiano Il Mulino 2004), soprattutto sul tema della “giustizia partigiana”:

“Nati come fuori legge, tendevamo per istinto a ritornar nella legge, ossia a creare un nostro “codice”, di cui la responsabilità fosse comune, alle cui formule si potesse ricorrere nei momenti di incertezza. Come ogni altra cosa, anche l’uccisione o la vendetta erano lentamente e continuamente sottratte al criterio del singolo”.

E le carte della Divisione lunense sono anche illuminanti sul tema della relazione tra bande partigiane e popolazione civile. Ma qui stiamo andando oltre l’approccio prescelto dall’autrice, anche se è inevitabile ed utile, e capita anche per altri casi, di dover coniugare le riflessioni e testimonianze individuali con la documentazione d’epoca.

La chiave di lettura “viscerale” scelta vuole parlare più direttamente al cuore dei lettori, soprattutto giovani, avvinandoli ai sentimenti di coloro che hanno combattuto per un migliore avvenire.

 

[Silvia Calamandrei]

RECENSIONE. Storie di diritti e di democrazia, Giuliano Amato e Donatella Stasio, 2023

Storie di diritti e di democrazia, Giuliano Amato e Donatella Stasio, Feltrinelli 2023

Un libro importante, sull’apertura della Corte costituzionale all’interlocuzione con la società civile, sull’impegno di trasparenza e di alfabetizzazione costituzionale, sui viaggi nelle scuole e nelle carceri, sui temi controversi su cui si è trovata ad intervenire. La svolta impressa da Paolo Grossi e proseguita dai suoi successori, a valorizzare questo fondamentale strumento di garanzia dei cittadini, viene raccontata con ricchezza di esempi da Donatella Stasio, giornalista responsabile a lungo della comunicazione della Consulta, e Giuliano Amato, che è stato presidente della Corte fino al grande concerto di Piovani sulle Eumenidi al Quirinale, momento alto di visibilità del ruolo della suprema garante della Costituzione. La Costituzione si è davvero “mossa”, come salutava Calamandrei commentando la prima sentenza della Corte nel 1956, all’epoca per abrogare le leggi fasciste, ma in seguito, sempre di più, per verificare la conformità costituzionale delle leggi adottate. Nel libro si esaminano anche i rischi di un indebolimento di questo controllo di conformità, dagli Stati Uniti ad alcuni paesi europei, e si auspicano paletti alle derive autoritarie degli esecutivi, a scapito dei poteri di controllo e bilanciamento. La questione ci riguarda. In epoca di populismi e di derive autoritarie degli esecutivi molte corti sono soggette a tentativi di riduzione dei poteri. Aprendo un dialogo fattivo con la società civile, visitando scuole e carceri, avviando una campagna di comunicazione con le nuove tecnologie, la Corte italiana ha intrapreso una alfabetizzazione costituzionale per rendere i cittadini più consapevoli dei loro diritti. Con uno stile vivace l’esperienza recente viene ripercorsa traendone un bilancio positivo.

[Silvia Calamandrei]

RECENSIONE. Sergio Luzzatto, Dolore e furore, Una storia delle brigate rosse, Einaudi 2023

Per una storia delle Br: cambio di paradigma?

Sergio Luzzatto, Dolore e furore, Una storia delle brigate rosse, Einaudi 2023

Dopo l’omaggio narrativo a Guido Rossa (Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa,Einaudi 2021), ritratto del delegato sindacale comunista ucciso dalle BR nel 1979, scandaglio nella stagione drammatica degli anni Settanta, Luzzatto ha intrapreso la faticosa ricostruzione del contesto in cui matura quel delitto, che a suo dire rappresenta una svolta nella vicenda delle BR, l’inizio del loro declino, sia nel consenso che nel fenomeno del pentitismo e della dissociazione. Uno spartiacque, non solo per la formidabile manifestazione di cordoglio operaio a Genova ai suoi funerali, ma per l’isolamento e la disgregazione del gruppo dirigente delle BR, che conosce un ricambio radicale in direzione di quella stagione della resa dei conti dominata dal deuteragonista di questa storia, Giovanni Senzani.

Genova è la città d’origine dello storico, e alle sue vicende dal luglio Sessanta in poi viene dedicata una puntigliosa ricostruzione antropologica, sociale e urbanistica che aiuta a inquadrare l’emergere dell’antagonismo operaio e studentesco, prima in forma di movimento e poi di consolidamento di gruppi extraparlamentari da cui attinge il reclutamento delle formazioni armate.  Luzzatto ha lavorato sugli archivi di polizia e di tribunale, sugli archivi dei movimenti, ma anche su tante testimonianze raccolte in interviste a distanza di decenni da protagonisti di quegli anni, sia nei movimenti che nei gruppi extraparlamentari e i loro servizi d’ordine che poi nella lotta armata, nonché su rielaborazioni letterarie, da Tabucchi a Sergio Givone.

La novità dell’approccio rispetto a tante storie degli anni Settanta è la ricostruzione fattuale e non dietrologica della nascita dei gruppi armati, contestando il teorema Calogero (condiviso anche da Dalla Chiesa) ma allo stesso tempo prendendo per buona l’ipotesi di un nesso tra cattivi maestri ideologhi ed allievi che ne mettono in pratica le lezioni. E a Genova i cattivi maestri non mancavano, tra Faina, Fenzi e Adamoli, ben insediati nell’università e nell’Ospedale San Martino e con un pubblico ampio di studenti ed allievi operai per diffondere efficacemente il proprio messaggio.

Il sottotitolo “una storia delle Brigate Rosse” forse avrebbe potuto essere sostituito da “per una storia delle Brigate rosse “, nel senso che il focus è su Genova e sulla genesi di quella particolare formazione territoriale, antropologicamente studiata,  reputata significativa per la degenerazione negli anni Ottanta in una logica del colpo su colpo, volta a rispondere più ai nemici diretti responsabili della repressione o della detenzione che alla pretesa di fare i conti con lo Stato: è la parabola discendente che coincide con l’ascesa ai vertici di Giovanni Senzani, il criminologo romagnolo che ha sposato la sorella del letterato filologo Fenzi, l’ideologo assurto anche lui ai vertici dell’organizzazione una volta che Dalla Chiesa ha neutralizzato l’apparato storico di Mario Moretti. Luzzatto non pretende di essere esaustivo, ma offre una metodologia per una mappatura più ampia della vicenda delle BR nelle sue diverse articolazioni territoriali.

Il protagonista del racconto è Riccardo Dura, il brigatista ucciso dall’irruzione dei carabinieri a via Fracchia assieme agli altri compagni, e rimasto momentaneamente non identificato: responsabile dell’esecuzione di Guido Rossa, con tutta probabilità non programmata. Luzzatto ne ricostruisce la tragica breve esistenza, fin dall’adolescenza difficile in convivenza con la madre, che lo condanna a ricoveri al manicomio e reclusione sulla Garaventa, una nave di rieducazione di stazza nel porto di Genova, uno dei tanti istituti di pena e rieducazione minorile che sono l’oggetto di studio di Senzani, ma anche terreno operativo di ben intenzionati psicologi cattolici che guardano a Basaglia e di educatori come Andrea Canevaro, prima leader del movimento scoutistico e poi animatore di una comunità di recupero e pioniere della pedagogia speciale al servizio dei disabili. L’esperienza sulla nave-scuola-riformatorio porterà Dura a imbarcarsi come marittimo, così come verrà definito nel necrologio redatto da Mario Moretti.

Più che la dimensione della fabbrica e della lotta di classe, dalla ricerca di Luzzatto emerge l’importanza della tematica dell’istituzione totale, dei riformatori e delle carceri, nelle motivazioni di tanti componenti del gruppo di fuoco genovese e nelle riflessioni di un altro ideologo, il professor Farina, collaterale alle BR. Ed emergono anche tante figure di “marginali”, difficilmente inquadrabili in un “album di famiglia” e oggetto delle attenzioni e dell’accoglienza di un prete come don Gallo, inviso alle autorità ecclesiastiche ma ben radicato nella predicazione sul territorio di una visione pauperistica del ruolo della Chiesa. A Genova, la lettura radicale del messaggio del Concilio e del Vangelo si affianca ai testi classici del marxismo leninismo: non c’è solo don Gallo, ma una comunità operosa di matrice cristiana di educatori e assistenti sociali operanti nel recupero della devianza, con cui i giovani reclusi della nave Garaventa entrarono in contatto.

Questa interpretazione non ha convinto Mario Moretti, con cui l’autore ha intrecciato un dialogo epistolare nel 2018, sottoponendogli la propria cifra di “un’esistenza inaugurata dalla condizione di marginale, ragazzino siciliano faticosamente trapiantato al Nord, e vittima delle istituzioni totali”. La replica di Moretti è secca, ribadendo la centralità operaia e l’appartenenza del marittimo Dura alla storia dei portuali di Genova.

Al di là della definizione di Dura, divaricata tra l’“operaio marittimo” di Moretti e il “marinaio alla Conrad” di Luzzatto, stavolta non si parla tanto di servizi segreti e di possibili manovratori dell’eversione, ma si fotografano e indagano i protagonisti e le loro parabole, offrendoci un ritratto di gruppo. Non sappiamo se Senzani fosse uomo dei servizi, ma sicuramente che godette per anni di finanziamenti del CNR, quale docente a Siena e titolare di progetti di ricerca mai verificati: sembra che il famigerato SIM delle BR, lo Stato imperialistico delle multinazionali fosse in fin dei conti abbastanza sgangherato da dare la caccia ad un suo beneficiario clientelare.

Il titolo si ispira ad una frase di Rossana Rossanda, con cui l’autore ha avuto uno scambio epistolare nel 2010, a proposito di una sua recensione al libro Per una storia del terrorismo italiano di Angelo Ventura. Nella premessa Luzzatto ribadisce la propria distanza interpretativa a proposito dell’affermazione “le parole non sono pietre”, riguardo al ruolo dei cattivi maestri e del teorema Calogero: “A Genova, intorno a un chirurgo come Sergio Adamoli, a uno storico come Gianfranco Faina, a un filologo come Enrico Fenzi, le parole sono diventate pietre”. Reputa comunque di aver raccolto l’invito di Rossanda ad un’analisi di quegli “anni pieni di dolore e furore”. Il suo approccio, enunciato nella Premessa, ispirato allo storico dell’illuminismo e del populismo russo Venturi, “consiste nello studiare la violenza politica dell’Italia negli anni Settanta attraverso la preistoria e la storia di una colonna della Br, e nello studiare la colonna domandandosi chi erano coloro che ne fecero parte, da quali ambienti provenivano, per quali esperienze erano passati. Quali libri avevano letto (o scritto), chi avevano incontrato, amato, odiato, prima di darsi alla lotta armata. E come poi si erano ritrovati lì, nel gruppo clandestino, chiusi in un covo a progettare rapimenti, irruzioni, gambizzazioni, omicidi, per fare la rivoluzione e instaurare il comunismo. Tutto qui”.

Luzzatto non nega che ci siano zone d’ombra su cui indagare, dai servizi segreti alla malavita organizzata. Ma “una volta raccomandata l’importanza di esplorarle con strumenti storiografici”, il libro muove dal convincimento che “la storia delle Br nell’Italia degli anni Settanta vada collocata- anzitutto e soprattutto- entro il quadro dei movimenti collettivi che dell’organizzazione terroristica costituirono il terreno di cultura”.

Insomma un cambio di paradigma della narrazione.

Da apprezzare infine la capacità narrativa e la forza evocativa per cui l’immagine della nave-prigione Garaventa ancorata nel porto e il sogno di fuga degli adolescenti reclusi rimangono scolpiti nella mente del lettore.

 

[Silvia Calamandrei]

RECENSIONE. Silvia Rizzo, Storie di Val d’Orcia, edizioni di Storia e Letteratura, 2023

Silvia Rizzo, Storie di Val d’Orcia, Edizioni di storia e letteratura 2023

Filologa e docente alla Sapienza di letteratura medievale e umanistica, l’autrice ha acquistato negli anni Novanta una casa di campagna ai margini di Campiglia dove si è trasferita definitivamente dopo il pensionamento. É la scoperta di un’altra dimensione di vita, immersa nella natura e in compagnia di cani e gatti, senza abbandonare i suoi amati libri e studi.

Dedica alla Val d’Orcia pagine intense di descrizioni e di vicende quotidiane, intrecciate a tanti riferimenti letterari e storici frutto dei suoi appassionati studi. In copertina il quadro di Andrew Wordsworth di grande luminosità che illuminava il suo studio e che ha rischiato di andare distrutto per un’esplosione di GPL nel 2013: l’amico americano gliel’ha poi restaurato come nuovo.

Bello il capitolo dedicato alla Sentieristica e risorse naturali, in una concezione del turismo come itinerari tematici, cui la zona idealmente si presta.

Letture che aiutano a conoscere meglio luoghi da esplorare piuttosto che da consumare nella voracità fotografica delle inquadrature di passaggio.

Da gustare lo scambio mail ed epistolare con Luca Serianni a proposito di traduzione di Orazio.

 

[Silvia Calamandrei]

RECENSIONE. Gaetano Salvemini, Il diario 1947 a cura di Mirko Grasso Con postfazione di Andrea Becherucci, Biblioteca Clueb 2023

Gaetano Salvemini, Il diario 1947 a cura di Mirko Grasso con postfazione di Andrea Becherucci, Biblioteca Clueb 2023

Nell’archivio Calamandrei di Montepulciano custodiamo un carteggio 1946-1947 che precede questo diario, e mostra la riluttanza pessimistica di Salvemini prima del rientro in Italia ed al tempo stesso la sua urgenza di riprendere contatto con la realtà italiana, da cui è esule sin dal 1925.

Sollecitato da Egidia Calamandrei, sorella di Piero, che gli aveva scritto parole fiduciose, annuncia un prossimo rientro in Italia per fare un “lavoro di investigazione”, per “scoprire se c’è qualcuno che meriti di essere aiutato”. Rinvia la venuta perché “bisogna lasciare il tempo al tempo perché quei due o trecento italiani […] trovino la loro strada da sé. Si difende disperatamente solo quello che si conquista da sé”.

In un commento al carteggio pubblicato sul “Ponte”1 scrivevo che Salvemini coltiva in quel momento “l’idea della formazione di una nuova classe dirigente, disinteressata e libera dalle ipoteche del passato, che possa prendere in mano le sorti del paese”. Sfiduciato dall’azione dei partiti ricompostisi nel 1943 e dalla frammentazione del Partito d’Azione, guardava alle nuove generazioni nella speranza di un rinnovamento dell’Italia.

É proprio quanto andrà ad investigare nel suo viaggio in Italia del 1947, di cui la preziosa trascrizione del diario ci ricostruisce i dettagli (Mirko Grasso ha lavorato sui manoscritti conservati all’ISRT, offrendoci un testo integrale che completa i passaggi finora noti).

Il rientro è per Salvemini l’occasione di riallacciare tanti rapporti interrotti dall’esilio o coltivati solo epistolarmente, di riabbracciare vecchi amici e di incontrane di nuovi, di scoprire come restasse viva la memoria del suo operato e di come fosse stata apprezzata la sua azione nell’esilio americano: tutto questo ci viene documentato nel suo diario dal luglio al novembre 1947, in cui annota le sue peregrinazioni di città in città ed i tanti incontri che ivi si organizzano.

L’attenzione di Salvemini non è rivolta solo alla sua cerchia amicale: quello che registra è anche il senso comune diffuso, l’atteggiamento e le preoccupazioni della gente comune che incontra in treno o in corriera, nell’ansia di ricostruire come si è trasformata la mentalità degli italiani dopo i decenni di dittatura fascista.

Il diario non registra eventi significativi cui partecipa nelle sue peregrinazioni, dalla commemorazione della Resistenza a Firenze alla partecipazione al Congresso del Movimento federalista europeo all’Eliseo di Roma, e è dedicato soprattutto ai contatti e alla registrazioni di conversazioni. Trova conferma dell’opinione positiva che già si era fatto della Resistenza, riscontrando nell’area Giustizia e Libertà i continuatori del proprio pensiero ed entusiasmandosi dei tanti messaggi positivi che raccoglie a Torino, nelle riunioni organizzate da Antonicelli. Al tempo stesso va raccogliendo le opinioni sulle elezioni dell’anno successivo, preoccupandosi della vittoria clerico-fascista che paventa.

Il suo auspicio è che si crei una formazione con i “migliori elementi del partito repubblicano,del partito d’azione, dei due partiti socialisti e dello stesso partito comunista” che si opponga alla destra clericale, “ma sia indipendente dalla estrema sinistra stalinista”.

La sua ipotesi è quella di un piano decennale: “ci vogliono dieci anni di astinenza dal governo e dalle miserabili contrattazioni parlamentari, rieducazione della gioventù, pre­parazione di idee concrete sul da fare quando si va al gover­no su non più che mezza dozzina di materie essenziali, e fra dieci anni fare la epurazione che non è stata fatta fra il 1944 e il 1946, aggiungendo agli epurandi del fascismo quelli del post-fascismo”.

Questo vecchio 74enne propone una sorta di distopia, che nessuno avrebbe poi praticato. Ammette anche che i comunisti sono stati i più fattivi ed attivi e che occorre “ricordare che nella mancanza di carattere ita­liano, i comunisti hanno dato magnifiche prove di carat­tere; nel presente riconoscere che sono la sola diga contro le esosità delle destre; per l’avvenire dichiarare che se si è costretti ad abbandonare ogni speranza di opposizione democratica, nella alternativa tra fascismo e comunismo, sceglieremo il comunismo”.

Anche tra i comunisti trova alcuni interlocutori, ma si preoccupa soprattutto di indirizzare gli azionisti dispersi nei partiti socialisti e nel partito repubblicano, mantenendo un coordinamento. A Milano trova grande consonanza in Bauer: “D’accordo sulla necessità di riconoscersi sconfitti, far punto e da capo, e proporsi un piano decennale. Non ha nessuna fiducia in nessun partito. Bisogna lavorare sulla gioventù,Tutti rubano”.

E ancora: “Bauer conviene con me che una vittoria comunista-socialista nelle prossime elezioni sarebbe un disastro; non saprebbero governare e i vinti sarebbero spinti a fare un colpo di stato avendo perduto la speranza di governare in regime parlamentare. Il mal minore sarebbe una maggioran­za clerico-qualunquista-liberale con una forte opposizione comunista-nenniana, e un centro-sinistra incapace di spostare la maggioranza ma risoluto a far fronte contro destre e solo contro destre, pur tenendosi distinto da comunisti-so­cialisti, pronto a far massa con comunisti e socialisti contro le destre, ma deciso a lavorare soprattutto per preparare una nuova educazione politica dei giovani e a lottare per la vit­toria tra dieci anni.

Dalle sue conversazioni Salvemini ricava un’impressione ottimistica sulla capacità del paese di riprendersi, ma è preoccupato degli orientamenti politici:

Questo paese, se non c’è guerra in pochi anni si rimetterà in bilico, salvo quanto vedrò da Firenze in giù. Ma in politica ho trovato in tutte le persone che ho visto uno scoraggiamento in tutti gli uomini di sinistra, derivante dal fatto che non sanno vedere che un bivio: o essere al governo o fare la rivoluzione. Nessuno comprende la possibilità di un’opposizione che si proponga di fare il governo di domani”.

Negli incontri Salvemini approfondisce anche gli errori commessi secondo lui nel recente passato, come quello di non aver proclamato la Repubblica subito dopo la Liberazione

Occorrerà che io parli con Parri, Valiani, Lombardi e Bauer per chiarire questo punto essenziale. Se i settentrionali non erano legati da nessun impegno – che del resto cessava con la fine della guerra guerreggiata – l’errore commesso a Milano di non scavare un fosso verso il passato proclamando la repubblica il 26 aprile 1945, sarebbe ancora più grave. Si spiegherebbe colla preoccupazione di quanto avrebbero fatto gli inglesi e americani, e colla resistenza che avrebbero opposto i comunisti e i monarchici. Ma l’errore di omissione rimarrebbe e sarebbe grande lo stesso”.

Per tutti gli studiosi della vicenda del Partito d’Azione queste pagine offrono notizie preziose in uno snodo decisivo che precede la conclusione della fase costituente e la vittoria democristiana del 1948.

Ma il diario ci offre soprattutto il ritratto di un uomo che ha un approccio pragmatico, attivistico, con una visione che prevede tempi lunghi per formare una nuova classe dirigente in grado di riformare l’Italia. Una distopia che ci aiuta a rileggere criticamente le vicende della nostra Repubblica.

In appendice raccolti scritti d’epoca ormai difficilmente reperibili, che integrano felicemente questo nuovo apporto.

1 Silvia Calamandrei, Un carteggio inedito 1946-47 tra Gaetano Salvemini, Ciro Polidori ed Egidia Calamandrei, “Il Ponte”, 28 ottobre 2021

[Silvia Calamandrei]

RECENSIONE: David Parri, Florido e il Piano K, Componimento misto di storia e d’invenzione, Effigi 2023

David Parri, Florido e il Piano K, Componimento misto di storia e d’invenzione, Effigi 2023

Nel 1948 ci fu sull’Amiata una “insurrezione armata contro i poteri dello Stato”, come sostennero il governo e la stampa governativa dell’epoca? E i turisti che percorrono e fotografano la val d’Orcia oggi sanno che sulla montagna che incombe sulle crete si annidavano pericolosi sovversivi, fin dai tempi ottocenteschi di Davide Lazzaretti?

David Parri ricostruisce un pezzetto di storia de I ribelli della montagna, come titolava un suo studio Gino Serafini, basandosi sui saggi storici che si sono susseguiti e sulla documentazione processuale e di stampa dell’epoca, alternandola alla fiction, con personaggi che vivono in diretta il difficile dopoguerra e le speranze deluse con la vittoria schiacciante della DC il 18 aprile del 1948 e colgono il segnale dell’attentato a Togliatti come una chiamata alla riscossa e alla resistenza.

Il lettore è dunque coinvolto in una narrazione che vede come protagonisti gli abitanti di Abbadia San Salvatore e Pian Castagnaio, ma soprattutto la gioventù e i ragazzini, che parteciparono con più intensità alla rivolta, e in questo modo ci illumina sulle molteplici ragioni che la animarono.  Conosciamo così la vita dura dei minatori, la minaccia di disoccupazione incombente con i licenziamenti annunciati dalla Società mineraria, la miseria delle famiglie contadine, i primi slanci di emancipazione delle donne, che hanno da poco ottenuto il diritto di voto. Conosciamo la memoria di quelle nuove generazioni, che avevano alle spalle l’epopea della resistenza partigiana a cui non avevano fatto in tempo a partecipare e sentivano ancora parlare della predicazione millenaristica di Lazzaretti. E conosciamo il ruolo della Chiesa in quegli anni, con la crociata anticomunista di papa Pacelli e le madonne pellegrine portate in processione contro gli scomunicati che si ispirano a Stalin e a Garibaldi. E viviamo insieme ai protagonisti i loro sforzi per farsi una cultura leggendo il Che fare? di Lenin o il settimanale Noi donne, nello sforzo di alfabetizzazione e educazione della rete delle sezioni del PCI dell’epoca.

È quella rete che anima la battaglia elettorale del Fronte popolare nella primavera del 1948, in una campagna dai toni esasperati da Guerra fredda, in cui intervengono pesantemente la Chiesa e gli Stati Uniti, e che si traduce nella scionfitta del 18 aprile. Ed è a quella rete che verrà imputato per i fatti dell’Amiata un preteso Piano K strombazzato dalla stampa ed utilizzato da Scelba per attuare una feroce repressione, arrestando in provincia di Siena sindaci, dirigenti politici e sindacali ed ex partigiani. mentre si vanno gettando le basi di quella rete Gladio in cui si recuperano tanti ex fascisti per contrastare la minaccia comunista. Al processo (Lucca 1950), in cui gli imputati sono difesi da Lelio Basso, l’imputazione di insurrezione armata decade, ma resta nella condanna a cinque anni di reclusione del segretario PCI di zona Domenico Cini per “istigazione all’insurrezione armata”.  In totale vennero comminati 233 anni per i 147 imputati di Abbadia San Salvatore, Pian Castagnaio e Castiglion d’Orcia con 15 anni agli imputati per l’omicidio del maresciallo Virgilio, nonostante i problemi psichiatrici dell’esecutore e la contraddittorietà delle testimonianze addotte.

Alla repressione sarebbe seguita anche un’ondata di licenziamenti, che la Società mineraria aveva preannunciato dopo il 18 aprile ma congelato per le reazioni sindacali.

Nel capitolo conclusivo ritroviamo il gruppo di amici protagonisti nel maggio 1959, quando la miniera è occupata contro 735 nuovi licenziamenti. Florido, ormai a Firenze, ne legge sull’Unità, in una corrispondenza di Luca Trevisani, e riconosce nelle foto alcuni dei vecchi compagni. La voglia di lottare non si è spenta e riaffiora nelle nuove battaglie, nutrendosi della memoria.

David Parri ci restituisce quella memoria intrecciando storia ed invenzione, secondo un approccio storiografico sempre più in voga, coinvolgente per i lettori.

(SILVIA CALAMANDREI)

 

RECENSIONE. Le radici nell’aqua, Vincenza Lorusso

 

Vincenza Lorusso, Le radici nell’acqua

Una vita raccontata con coraggio, altruismo e generosità. È la vita di Vincenza Lorusso narrata nel suo libro autobiografico Le radici nell’acqua (edito da Europa Edizioni). Una storia avvincente, drammatica, coinvolgente, da leggere tutto d’un fiato. È la storia dell’infettivologa originaria di Gravina di Puglia che, dopo l’Università a Siena, decide di lavorare per le associazioni umanitarie portando la propria opera volontaria dove vi è più bisogno, dal Kenya all’Uganda, dalla Tanzania al Brasile. È stato in Guatemala, però, che la sua vita, a soli ventisette anni, subisce una svolta drastica e drammatica, rimanendo vittima di un attentato che la segnerà per sempre.

Leggendo il libro riesci a percepire i colori, la fatica, il caldo, i profumi, la sensazione di impotenza ma anche la caparbia voglia di fare qualcosa per cambiare le cose. Tutto questo con una scrittura netta, chiara, senza fronzoli, dritta al punto ma con momenti di grande poesia che riesci a tirare fuori solo se hai davvero vissuto, fino in fondo e con consapevolezza, ciò che stai raccontando.

Le radici nell’acqua è dunque un libro appassionante da cui prendere ispirazione e esempio: l’umiltà di un medico che decide di offrire cure, sostegno e amore agli ultimi della terra. Ma non è solo la storia di un medico sul campo, il libro è ancora di più la storia di una donna forte, determinata, caparbia, dolce e fragile. Una donna profonda e un’anima gentile che racconta la maternità, l’amore, i fallimenti e i successi.

Una storia che non lasci e che non ti lascia, che ti arriva dritta allo stomaco e che ti fa credere che il mondo può essere anche meraviglioso e che sia popolato anche da persone con anime profonde che rincuorano, come Vincenza.

(Recensione di Francesca Cenni)

RECENSIONE. Sacha Naspini, Villa del seminario. Edizioni e/o 2023

Sacha Naspini, Villa del seminario. Edizioni e/o 2023

 

Con Naspini la nostra biblioteca ha un rapporto antico, avendone presentato le prime opere ed avendolo seguito nella carriera letteraria commentandone l’evoluzione, fino all’approdo con una casa editrice di grande impatto, riuscita a riproporre anche opere che rischiavano di essere dimenticate, nonché a promuoverne la notorietà globale con le tante traduzioni.

Non possiamo che rallegrarci di questa nuova creazione, già proposta per lo Strega, ed uscita in occasione della Giornata della memoria come un pugno allo stomaco. Già, perché lo scrittore maremmano è andato a scovare una memoria che si è fatto di tutto per occultare. Cone scrive nella nota finale:

“Grosseto ha un primato nella storia dell’Olocausto: l’unica diocesi in Europa ad aver firmato un regolare contratto d’affitto per realizzare un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nella villa del seminario furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio”.

E ancora:

“Neanche al processo contro i gerarchi fascisti della provincia – incluso Alceo Ercolani – istruito per l’organizzazione e la gestione del campo di Roccatederighi (nonché per il trasporto da lì ai campi di sterminio) si parlò di capi d’imputazione. Su circa ottanta pagine, nemmeno una parola. Venne presto l’amnistia. Se in un primo momento ai condannati toccarono pene severe, i più non scontarono nemmeno un giorno di carcere. La volontà di considerare i crimini contro gli ebrei come un evento minore risulta anche da quanto avvenne nel dopoguerra: il vescovo Galeazzi trovò del tutto normale pretendere dallo Stato italiano il pagamento dell’affitto che l’Ercolani non aveva onorato per l’uso del seminario”.

L’oblio, che si è tentato di fugare con ricerche storiche locali e con il libro di Ariel Paggi Il muro degli ebrei, nonché con una lapide commemorativa, viene ora messo sotto i riflettori da un narratore, particolarmente legato a Roccafedrighi, già protagonista collettiva del romanzo Le case del malcontento, l’opera forse più compiuta di Naspini. È tra quelle case e quei personaggi che lo scrittore ambienta compromessi, collusioni, resilienze e resistenze che caratterizzano il periodo finale che precede la Liberazione, tentando di rispondere alla domanda:”cosa succede se da un giorno all’altro piazzano un campo d’internamento accanto a casa tua?”.

Protagonista un ciabattino e la donna amata in segreto, più risoluta di lui nell’unirsi alla lotta partigiana e a lasciare la “zona grigia” dell’attendismo e della pavidità. Ma Naspini ha modo di modulare nei personaggi tutta la gamma degli atteggiamenti di quel periodo di oppressione, scelta, attesa, trasformismo, in un ritratto impietoso, senza retorica di un passato che merita di essere rivisitato.

Forse non è la sua opera letterariamente meglio riuscita, perché si è fatto prendere dalla foga della denuncia, ma la scelta d rievocare memorie sgradevoli va salutata come gesto di coraggio in un panorama editoriale che moltiplica memorie delle vittime e rischia di dimenticare i carnefici e i loro complici e scansa le responsabilità e le colpe.

Silvia Calamandrei

RECENSIONE. Un ebreo in camicia nera, Solferino 2023

Paolo Salom, Un ebreo in camicia nera, Solferino 2023

 

La scadenza della Giornata della memoria viene utilizzata dagli editori per ripubblicare classici sulla Shoah ma anche nuove testimonianze e memorie, che continuano ad emergere da quel nodo o meglio gorgo tragico del Novecento, in cui ogni storia individuale acquista valenza di lezione da non dimenticare.

Ẻ il caso di questo racconto autobiografico del giornalista Paolo Salom, che ricostruisce le vicende del padre Marcello e del nonno Galeazzo, quest’ultimo ebreo veneto convertitosi al cattolicesimo persuaso di sottrarsi alle persecuzioni che si preannunciavano, imponendo la scelta all’intera famiglia, trasferitasi in Italia dalla Romania nel 1938, proprio alla vigilia delle leggi razziali. Una conversione di opportunità che la moglie rumena non gli perdona, e che comunque non salva la famiglia quando la caccia agli ebrei si intensifica con l’arrivo dei tedeschi dopo l’8 settembre del 1943.

Il quindicenne Marcello, amareggiato dai contrasti familiari, prende la fuga a finisce tra le camice nere, del tutto inconsapevole della guerra civile in corso: indossare la divisa gli sembra una buona mimetizzazione, dopo che il tentativo di passare il confine svizzero per ritrovare parenti ebrei rifugiati si rivela troppo pericoloso.  Un giovanissimo ebreo in camicia nera quasi per caso, che addirittura decide di raggiungere il fronte verso Sud per combattere, ritrovandosi a Rimini proprio nelle giornate della rotta della Linea Gotica. I tedeschi abbandonano alla loro sorte i collaborazionisti fascisti i quali si sbarazzano delle divise per far ritorno disordinatamente a casa. Tra loro Marcello che rischia stavolta non come ebreo ma come fascista, tardando a sbarazzarsi dalla divisa. Sarà un suo vecchio compagno di scuola ad accoglierlo urlando: Cosa fai vestito in quel modo, santo ragazzo! Per carità, entra che se ti vede la ronda dei partigiani ti mette al muro qui, dove ti trova”.

Una delle tante storie di zona grigia, che l’Italia avrebbe poi faticato a metabolizzare. Il figlio e nipote racconta con partecipazione empatica, a distanza di anni. Il racconto non ha la drammaticità delle testimonianze dirette, né il pathos della fiction, ma mette a fuoco l’esperienza individuale di un giovanissimo perso nel gorgo della storia.

(Silvia Calamandrei)