Salvatore Satta
Lettere a Piero Calamandrei 1939-1956
a cura di Angela Guiso e Carlo Felice Casula
Bologna, Il Mulino, 2020
Due studiosi sardi, lei critica letteraria e lui storico,
hanno ricostruito un prezioso carteggio tra i giuristi-letterati Salvatore
Satta e Piero Calamandrei, che documentano momenti di consonanza e
collaborazione significativi.
Le lettere provengono essenzialmente dal Fondo Calamandrei
dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana di Firenze (quelle di Satta)
e dal Fondo Autori e Scrittori Sardi di Sassari (quelle di Calamandrei).
L'epistolario è introdotto da due testi dei curatori, e corredato dai profili
biografici dei due giuristi e da una nota al testo. Un lavoro accurato e
partecipe, che sollecita il lettore ad ulteriori approfondimenti. Una
bibliografia e qualche notizia in più sui curatori sarebbero stati utile
complemento.
Il punto di gravitazione è il De profundis di Satta,
e le sue difficoltà di pubblicazione nell'immediato dopoguerra. L'autore lo
invia a Calamandrei, con il quale intratteneva una corrispondenza fin dal 1939,
soprattutto in relazione a lavori giuridici e alla «Rivista di diritto processuale
civile»
che Calamandrei dirigeva insieme a Carnelutti. Già nel 1939 Calamandrei
aveva sottolineato il comune "amore per il diritto", e la condivisione di un
senso di angoscia che si esprimeva negli scritti, augurandosi di poter "parlare
lungamente su questi argomenti di studio, nei quali ci è ancora dato di avere
qualche opinione".
E nel 1945, dopo la Liberazione, aveva voluto complimentarsi
da rettore dell'Università di Firenze per il "bellissimo discorso" che Satta
aveva tenuto inaugurando da pro-rettore l'Università di Trieste (il significato
dell'esperienza triestina è approfondito nel saggio introduttivo di Casola e ci
mostra come Satta sapesse vincere il suo pessimismo e la sua riluttanza
all'azione, mobilitando energie costruttive).
Satta aveva inviato il suo manoscritto ad Einaudi ma ne
aveva ricevuto un rifiuto molto politically correct da Massimiliano Mila
in data 8 maggio 1946, "perché il suo modo di vedere le cose è troppo
radicalmente diverso dal nostro". E questo in nome della lotta partigiana
vittoriosa contro il sentimento di sconfitta e sfacelo, di "morte della patria"
che pervadeva lo scritto. Satta è tacciato di "tipico assente" che sconta la
sua assenza dall'antifascismo "con il catastrofico pessimismo che Le fa vedere
il nostro popolo come un abulico e passivo oggetto di storia". Di fronte al
"fossato" che la redazione di Einaudi definisce come distanza, Satta risponde
pacatamente da Trieste, allegando quel discorso inaugurale che era stato
apprezzato da Calamandrei, per dimostrare che:
"lo
stesso bisogno di sincerità e di onestà che ha ispirato il De profundis
ha spinto il "tipico assente", il "catastrofico pessimista", lo "estraneo agli
ambienti antifascisti", come Ella ama pensarmi, ad assumere una responsabilità
e ad occupare un posto da cui gli italiani attivi ed ottimisti si terrebbero
oggi prudentemente lontani".
Mi piace pensare che Satta reagisca al rifiuto di Einaudi
premurandosi di verificare, con una lettera del 29 maggio, se Calamandrei, di
cui Satta intuisce una possibile sintonia, abbia ricevuto il suo manoscritto,
inviato il 4 maggio. Impegnato com'era con il referendum e le elezioni
dell'Assemblea Costituente Piero C. aveva tardato a reagire, ma ripresosi di
una settimana di "collasso" (parola cara anche al sensibilissimo Satta)
replica:
"il tuo saggio è stupendo, e mi ha profondamente commosso.
Bisogna pubblicarlo".
Intanto chiede di pubblicarne qualche pagina sul "Ponte", come
avverrà nel numero di fine anno. E dunque anche in questo caso, come per quello
di Primo Levi, la rivista fiorentina si fa ospite e promotrice di testimonianze
ed "esami di coscienza" sgraditi al clima di euforia dominante. La gioia di
Satta è immensa, perché Calamandrei ha inteso le sue motivazioni profonde, come
scrive il primo luglio:
"Per me ha un'importanza immensa che un Uomo come te, che
hai lottato e sofferto per la libertà, sia rimasto commosso dalla lettura: è
segno che non ti è sfuggito che al fondo dello spietato esame di coscienza sta
una incrollabile e quasi soprannaturale speranza. È un libro triste, ma non
desolato e desolante, un libro che io sono fermamente convinto possa fare del
bene, anche a chi non sia disposto a condividere il mio personale atteggiamento
di fronte alla nostra spaventosa esperienza".
Se la rivista pubblica alcune pagine, il testo integrale non
viene invece accolto nei quaderni del Ponte e neppure dalla Nuova Italia, forse
per le esitazioni di Tristano Codignola e Corrado Tumiati, che lo liquidano
come inadatto per i suoi "intendimenti artistici" (un pretesto?). Satta finisce
per persuadersi che la "nuova Italia, e non la casa editrice, ma questo nostro
singolare paese, non sia il posto adatto per la pubblicazione del mio libro" e
si augura che tra cent'anni qualche studente ritrovi il manoscritto, reperto
per i postumi "sullo stato d'animo degli italiani durante la seconda guerra
mondiale". Ma in fondo non era stato lo stesso intento di Calamandrei nello
scrivere il suo Diario, che paragonava ad un testo dell'epoca di Giuliano
l'Apostata, destinato alla lettura dei posteri? E forse non fu un caso il
ritardo della sua pubblicazione (1982). proprio perché gli stessi allievi esitavano
a offrire un ritratto in chiaroscuro del cantore della Resistenza?
Il De profundis uscì per la CEDAM nel 1948 a spese
dell'autore, e nel testo che appartiene alla biblioteca di Piero sono posti due
punti interrogativi a passaggi anti-inglesi che deve aver commentato anche in
una lettera a Satta forse andata smarrita (i curatori non ne fanno parola). Lo
desumiamo dalla lettera di Satta del 7 luglio 1948 che si riferisce alle parole
di Calamandrei sul "libretto" ed insiste di non aver voluto fare "un'opera di
storia":
"Ho voluto solo rappresentare il dramma di un individuo che
si trova d'un tratto in mezzo alla tormenta [...]ed è spinto da ciò a un doloroso
esame di coscienza, di null'altro desideroso che di veder chiaro nella propria
anima. E perciò quei giudizi di cui tu lamenti l'asperità (come quello
sull'Inghilterra) non possono essere considerati come l'espressione del mio
pensiero, ma solo del mio sentimento in quelle circostanze di tempo e di
luogo".
Ed a proposito della lotta per la liberazione, afferma di
non averla voluta oscurare, "o sommergere nella vivisezione dell'individuo
tradizionale, ma se mai esaltare e purificare negli uomini eletti, nei credenti
che l'hanno combattuta".
Insomma siamo sulle orme del classico esame di coscienza del
letterato di Renato Serra, caro a Calamandrei, e ad un discorso sul carattere
degli italiani, topos della nostra tradizione: e così verrà interpretato
tardivamente, negli anni Ottanta dopo che Adelphi lo recupera dalla CEDAM
insieme a Il giorno del giudizio, pubblicato postumo nel 1977. Le edizioni Adelphi che si susseguono tra il
1979 e il 1980 gli assicurano finalmente il successo letterario. Poi ci sarà la
vulgata di Galli della Loggia sulla "morte della patria" (1996), che
coinvolgerà in polemiche antirevisioniste lo stesso Satta, con anche
l'infortunio di attribuirgli una lettera a Segni di un suo omonimo avvocato
sassarese per dare degne onoranze alle spoglie di Mussolini.
Il successo di Satta si colloca dopo l'Intervista di De
Felice, che inaugura una nuova stagione di studi sull'antifascismo ed il
fascismo, ad indagarne la complessità al di là delle sistemazioni retoriche.
Stagione tuttora aperta sia pur con la pietra miliare posta da Claudio
Pavone. E in tali studi, con la nuova
introduzione all'edizione integrale dei Diari di Mario Isnenghi (Edizioni di
storia e letteratura 2015), anche le pagine di Calamandrei sono testimonianza
essenziale.
Negli scambi epistolari con Calamandrei Satta coglie
un'assonanza spirituale nella mestizia che spesso li pervade, segnale di un
"comune sentimento della vita". La divergenza starebbe nell'azione:
"La mia povera azione è tutta nel pensiero; la tua si svolge
nella partecipazione attiva alla vita, che io posso intendere negli altri, ma
non in me, perché l'azione ha sempre qualcosa di impuro, che non riesco ad
accogliere".
Riluttante ad accogliere l'invito a collaborare al numero
speciale del "Ponte" dedicato alla Sardegna, pur prodigando consigli, Satta
riesce a consegnare più tardi il saggio che gli era stato chiesto su Lo
spirito religioso dei sardi, che infatti verrà pubblicato in un numero
successivo, del settembre-ottobre 1951. Ci tiene però a segnalare un lavoro
della moglie Laura Boschian su Dostoevskij, che verrà pubblicato nel maggio del
1954. Un altro lavoro di Laura Boschian sulla letteratura russa verrà inoltrato
per "Il Ponte" nel 1956, anno della morte di Piero Calamandrei.
Satta sarà tra i migliori commemoratori e compendiatori del
pensiero di Calamandrei, nel suo Interpretazione di Calamandrei (Giuffré
1967): Ada Cocci Calamandrei lo ringrazia e ne ricorda l'amicizia in una
lettera del novembre 1967, che conclude questo intenso epistolario. Peccato che
il giurista sardo non abbia potuto leggere i Diari di Piero, pubblicati nel
1982, dopo la sua morte nel 1975: forse avrebbe avuto occasione di trovare
maggiori consonanze, soprattutto nelle pagine di Colcello nell'inverno
primavera 1943-1944, quando Piero era più bloccato e lontano dall'azione.
Gli scriveva:
"...quando la tua azione sosta, si manifesta il tuo vero
essere, e allora sento quanto il tuo animo sia vicino al mio, e come tu viva la
mia stessa passione, cioè come la vita si rifletta in te nello stesso modo"
Una consonanza di animi che i curatori hanno saputo ben
documentare e commentare.
(Silvia Calamandrei)